Crisi delle élites: Platone o Machiavelli?

Il professor Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale e professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa, viene spesso interpellato dal quotidiano “Il Foglio” su questioni relative al sistema politico-istituzionale italiano, le sue manchevolezze e storture, i possibili e auspicabili rimedi, le prospettive, e così via. Le risposte del professore sono sempre precise, rigorose ed esaurienti, dalla loro lettura non si può che trarre preziosi insegnamenti e spunti di lavoro.

Nell’ultima intervista resa al giornale di Claudio Cerasa (“Il Foglio”, 18 luglio), Cassese tocca un argomento di grande (e drammatica) attualità: “Prof. Cassese, un tema che ritorna, quello della classe dirigente. Vogliamo parlarne?”. Cassese puntualizza: sì, parliamone, ma “evitiamo semplificazioni. Cerchiamo di attenerci all’Italia. Distinguiamo personale, incentivi, ‘humus’, interlocutori...”.

L’intervistatore concorda, e dunque “cominciamo dal personale...”. Ineccepibile, l’affondo del professore: “In Italia abbiamo una democrazia debole proprio perché è debole la classe dirigente. Il personale politico nazionale è scelto dai vertici dei partiti, cioè dalla sommità del nulla (...) la maggior parte dei nostri rappresentanti ha scelto la politica come ‘mestiere’, non certo per essere in linea con il Weber del ‘Politik als Beruf’, la politica come ‘professione’, ‘vocazione’(...). Molti – prosegue il professore – non hanno completato gli studi (...). Il nostro passato è stato di tutt’altro tipo. Pensi a Orlando, Nitti, De Stefani, Rocco, Beneduce, Dossetti, Moro, Fanfani, Einaudi, Amato, Monti, tutti professori universitari. Oppure a grandi tecnici come Giolitti, Menichella, Badoglio, Carli, Ciampi (...)”. L’elenco si chiude sui nomi di De Gasperi e Togliatti, che erano “politici puri”, ma almeno “avevano terminato gli studi...”.

Ahimè!, il lungo e puntiglioso elenco stilato dall’emerito professore non mi convince. Non per i nomi in sé, tutti meritevolissimi. Ma, davvero, per essere tali, i grandi politici debbono uscire dai ranghi accademici o tecnocratici? Non è da osservare – subito e pregiudizialmente – che quei nomi, quelle figure appartengono ad epoche in cui l’attività politica era affare riservato ai benestanti, ai “borghesi”, per lo più vocati agli alti, socialmente prestigiosi insegnamenti piuttosto che, per dire, ai commerci o agli affari? La rottura con quei tempi, costumi e pregiudizi mi pare sia stata storicamente giudicata come positiva, l’ingresso in politica dei non-borghesi venne visto come una conquista della democrazia (a parte il conseguente passaggio dall’uninominale al proporzionale). Appena un po’ dopo, ma per alcuni troppo tardi, varcarono la soglia delle istituzioni anche le donne, casalinghe o telefoniste...

Una parentesi: che il tema delle grandi élites, e quindi della grande politica, sia comunque di attualità, anche se letto da punti differenti e apparentemente lontani , riceve continue conferme. Segnalarle è doveroso. Sul Corriere della Sera del 22 luglio scorso, Ernesto Galli della Loggia dedica l’editoriale all’analisi del perché in Italia non sia possibile alcuna riforma, alcun mutamento o modifica strutturale sia nell’economia che nella giustizia o, per dire, nella sanità, ecc.. La risposta del politologo è drastica: “... perché in Italia non esiste più il Potere”, cioè “l’autorità di decidere che cosa fare, di imporre che lo si faccia trovando gli strumenti per farlo; che poi si riassumono essenzialmente in uno: lo Stato”. La crisi italiana è la crisi dello Stato. E non c’è bisogno di evocare Machiavelli (o Benedetto Croce) per avvertire che lo “Stato” è il nome collettivo e riassuntivo per designare la classe politica.

Dunque, Cassese imputa la crisi italiana all’impoverimento “culturale” delle sue élites. E precisa: oltre all’impoverimento culturale dei politici “puri” si deve purtroppo lamentare una forte carenza di “competenze” tecniche. I due aspetti della crisi sono dovuti alla “povertà” di un humus non fertilizzato da “scuole, maestri collettivi, tradizioni”, determinanti invece nella formazione dell’”establishment” britannico con i suoi college esclusivi, o della grande scuola amministrativa francese, che ha al suo apice l’École nationale d’administration (Ena), incubatrice di “grand commis” ma anche di politici. Cassese fornisce molti esempi delle mancanze strutturali che rendono povera la classe dirigente e politica italiana. Ma qui qualche obiezione è possibile, e io l’azzardo. In tempi recenti, proprio qui in Italia, ottimi tecnici vennero richiesti di affiancarsi ai politici “puri”, per rendere più sollecite e puntuali le necessarie e attese riforme, si pensi solo alla spending review. La collaborazione fallì, i politici “puri” non gradivano gli esperti... Cassese termina il suo intervento facendo – sulla scia di Erwin Panofsky, il grande critico d’arte – l’elogio dell’intellettuale; colui che, dalla sua distaccata “torre d’avorio”, potrebbe e dovrebbe dare i segnali di guardia sui pericoli di cedimento della vita sociale e politica, e invece – e qui sento gli echi di testi famosi, “L’eclissi dell’intellettuale” di Elémire Zolla, la “Trahison des Clercs” di Julien Benda, “L’Opium des intellectuels” di Raymond Aron – cede alle lusinghe del suo tempo e del Potere.

Spero di non aver troppo tradito, nella mia forzatamente breve sintesi, il pensiero dell’esimio professore. Spero soprattutto di aver mantenuto percepibile il sentore di altissimo platonismo che affiora dalle sue pagine. Fu Platone a disegnare per primo i contorni di una “Repubblica” governata da élites di saggi, possessori dei valori del bene e del male. Platone ha avuto notevole importanza nello sviluppo del pensiero politico in Occidente, almeno fino all’arrivo di Niccolò Machiavelli, che ne confutò i presupposti profondi, ricordandoci che il governare, il far politica non è una “competenza”, ma un’“arte” specifica, dai contorni precisi ma indefinibili, che purtroppo non si impara né all’Università né in una prestigiosa accademia.

Aggiornato il 24 luglio 2017 alle ore 19:09