La grande paura dell’invasione

Nel recente incontro fra i due ministri degli Esteri, italiano e austriaco, era fin tropo facile cogliere nel primo una certa fragilità di strutturazione politica rispetto all’altro che, impettito come uno Junker prussiano, rovesciava a suo favore la minaccia del Crapun di schierare le proprie divisioni al Brennero.

Il fatto è che, fragilità o non fragilità, debolezza o impreparazione o complessi di colpa, su quella sorta di match di boxe, virtuale fino ad un certo punto, aleggiava una nube sinistra, un specie di incubo quotidiano, un’intimidazione incombente da far para, ovvero, la grande paura, dell’invasione. Non v’è dubbio che una grande parte di questo spavento attiene più alle oscure vie della psicologia individuale e collettiva e che, dunque, sia sempre possibile, come lo è, la strumentalizzazione politico-partitica, l’enfasi tribunizia, demagogica e populista, ma è proprio sulla crescita impressionante dei movimenti populisti in Europa e ovviamente in Italia, che occorre fare mente locale, riflettere, andando - se possibile - più in profondità, in cerca delle radici di questa paura, sforzandoci soprattutto di collegarla a un contesto mondiale che, per comodità e sintesi, chiamiamo globalizzazione. Che non deve essere un modo di dire, una risposta facile facile, una delle tante frasi-simbolo che escono automaticamente dalla bocca. E ce lo ricorda in un suo formidabile saggio “L’élite progressista contro il popolo” il sociologo Nicolò Costa, fra i più lucidi e brillanti docenti universitari che ha messo in luce la “specialità” della guerra di classe globale contro il ceto medio. La mondializzazione, soprattutto com’è percepita dall’uomo della strada (il popolo) con un’attenzione tanto meno istruita e colta, quanto più preoccupata e spaventata, sta a indicare “quegli alti papaveri” della finanza e delle multinazionali che, secondo quella percezione popolare, umiliano le nazioni senza pagare pegno, senza versare alcuna tassa”.

Sono, dunque, i rappresentati dell’élite globale, i ricconi d’antan ma aggiornati, raffinati da una managerialità up to date e pure affilata come una lama benché la si occulti dietro l’invocazione al superamento dello stesso concetto di patria nel contesto di una mondializzazione ideologica che alimenta i miti del “mondo senza frontiere” e senza bisogno di passaporti in una concezione geopolitica propugnata come la più giusta, la più moderna, la più corretta. Il mitico “politicamente corretto” emerge prepotentemente in nome e per conto delle pretese, scambiate per ragioni, di un mondo interconnesso nel quale i cittadini di una nazione “devono innanzitutto tener conto di che cosa pensa il mercato finanziario e se ne devono occupare ancor prima di scegliere liberamente perché potrebbero avvenire catastrofi nello spread e si potrebbero dunque impoverire se sbagliano”.

Quanto poco interessi a questa élite di potere la volontà popolare espressa con le elezioni nazionali o locali è di tutta evidenza. Ama totalmente “Imagine” di John Lennon, trasformata in un nuovo inno: immagina che non esista il paradiso/è facile se ci provi/nessun inferno sotto di noi/immagina che non esistano frontiere e nessuna religione. Di certo il grande Lennon, in questa sua affascinante poesia cantata, non aveva altro desiderio se non sedurci, figuriamoci, poi, se pensasse a qualsiasi risvolto politico. Eppure le sue strofe suggestive possono servire, eccome, alla cattiva coscienza di élite interessate a un progetto di marginalizzazione, fino alla sua scomparsa, di un’identità, sradicandola in nome di un nuovo paradiso in terra che apre, ça va sans dire, le porte alle potenze asiatiche, ma specialmente a quelle arabo musulmane e pure nelle modalità di un’immigrazione di soggetti a loro volta sradicati e senza alcuna necessita di confini nazionali perché connessi all’irreversibile fedeltà alla religione musulmana in cui è la Sharia a dare un senso alla loro esistenza. Donde una spiegazione della Brexit, dell’avvento di Donald Trump, del successo del M5S, della crescita dei movimenti populisti.

Da ciò, infine, la paura dell’invasione demografica, al di là di qualsiasi riflessione alla Tito Boeri (Inps). Un timore che cresce di pari passo alla percezione - giusta o sbagliata che sia - di una “colonizzazione” delle città di accoglienza, all’occupazione di spazi e diritti sottratti a chi vi è nato e cresciuto e ha lottato e ha lavorato un’intera vita. E ora assiste alla progressiva mortificazione della propria identità. E si va convincendo sempre più che i miti e le predicazioni dei progressisti, dei politicamente corretti, le loro idee ed ideologie hanno tradito e abbandonato il ceto medio e i suoi valori.

Aggiornato il 21 luglio 2017 alle ore 21:52