La mafia non c’entra nulla con Roma

Processo Mafia Capitale: “Riqualificati i reati di cui al capo primo ai sensi dell’articolo 416 Codice penale”, ossia per i diciannove imputati, accusati di fare parte o aver favorito la cupola, cade l’accusa di mafia.

Come volevasi dimostrare, la mafia non c’entra nulla, nulla. Il malaffare sì, gravissimo, pestilenziale, così come la delinquenza, infiltratisi ovunque. Ma non la mafia come si è buttato a capofitto a sostenere fin dalle indagini preliminari il serrato sodalizio tra la Procura, gli uffici investigativi e molti giornalisti, troppi per un Paese che voglia dirsi serio. Bello smacco, sì, per tutti coloro che hanno voluto e cercato, riuscendoci in questa Italia così poco avvezza al concetto di Stato di Diritto, di contrassegnare il procedimento da un’inaudita pressione mediatica e dal chiaro tentativo di marchiarlo col segno dell’esemplarità.

L’obiettivo è sempre stato l’estensione di un modello di giustizia militarizzata ai reati contro la Pubblica amministrazione tramite la loro equiparazione a quelli mafiosi. Con relativa adozione di tutti gli strumenti giudiziari, processuali e investigativi del “doppio binario”. Non ultimo l’adozione di misure come le udienze in videoconferenza per gli imputati. Misura però poi revocata quasi subito in un lampo di buon senso dal Tribunale di Roma per ben 14 degli imputati incensurati per cui era stata prevista. Ma di cui ha tristemente confermato l’applicabilità quel colpevole pasticcio di riforma penale voluta dal ministro Andrea Orlando a colpi di fiducia.

Il castello del processo Mafia Capitale, costruito ad arte per custodire e consentire entro le sue mura il primo di una serie di misure proprie della legislazione speciale dell’associazione a delinquere per associazione mafiosa ai (pur odiosi) reati contro la Pubblica amministrazione, è dunque crollato. E questo significa che sono state emesse condanne molto pesanti, ma conformi alla reale fattispecie dei reati commessi. Non sentenze esemplari funzionali allo scardinamento del vigente modello di giustizia, o funzionali e risultato di un tentativo di estensione della legislazione speciale al maggior numero di reati possibili. Si è evitato un grave vulnus alla civiltà giuridica. Gli operatori-sciacalli dell’informazione se ne facciano una ragione. Il loro teorema si è sfaldato di fronte all’evidenza della mancanza di tutti gli elementi che contraddistinguono il reato di associazione mafiosa: forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva per commettere delitti, acquisire la gestione o il controllo di attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi giusti per sé e per altri o per impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o procurare voti a sé o ad altri.

La giustizia ogni tanto ancora non perde le coordinate della ragionevolezza e del raziocinio; applica i codici e, insomma, funziona. Ora tutti coloro che si sono galvanizzati prendendo parte attiva al sodalizio, osmotici tra i paladini di un fasullo e scorretto diritto di cronaca e l’interesse di procure e uffici di polizia giudiziaria a usare la stampa come strumento di ribalta personale e pressione od orientamento delle indagini, hanno incassato una strepitosa e meritata brutta figura. Per salvare la faccia non sono pochi tra loro i giornalisti, cui non resterà che usare la solerzia di cui hanno dato prova nell’identificare il procedimento di Mafia Capitale con la sola fase delle indagini, per applicarsi in un tentativo di condizionamento e di pressione per arrivare a un giudizio in appello la cui sentenza dia generosamente spago ai loro deliri sull’identificazione della cosca mafiosa di Roma. L’impressione però è che, nelle aule di giustizia, tra i giudici, le pressioni mediatiche sulle indagini non sempre la spuntino sul dibattimento. Questo è uno di quei casi. Che l’aria stia cambiando?

Aggiornato il 21 luglio 2017 alle ore 21:48