Lo spettro della politica s’aggira nei talk-show

Qualche giorno fa uno che davvero se ne intende di mass media, soprattutto di tv, l’ottimo Aldo Grasso, metteva il dito sulla piaga degli stessi talk-show - in genere sdraiati su incontri ad insulti fra politici - osando affermare che la crisi della parola, del parlato in tv, insomma dei “talk”, va di pari passo con quella dei parlanti.

Si sa, il talk-show è quella specie di strumento mediatico che si mangia in un boccone la stessa politica riducendola, esattamente come la prefigurava uno strepitoso Karl Kraus: una sorta di rito tribale mascherato da spontaneità democratica, “un’orgia di parole che prefigura la politica stessa come i capannelli che si formano sempre intorno ad un cadavere”. Geniale, vero? Ma soprattutto vera, questa immagine di una politica ridotta a cadavere su cui s’incrociano le chiacchiere dei capannelli nel momento stesso nel quale la paralisi del “verbum” procede implacabile quella di coloro che parlano. Ma c’è qualcosa di più e di più serio rispetto ai parlanti, ovverosia a coloro che nei talk-show rappresentano la politica, o meglio i relitti, i resti informi, le membra sparse della stesso. Sono  costoro i conduttori dei talk-show, non tutti, le cui responsabilità nella paralisi di cui sopra sono evidenti,  e che impersonano, a loro modo, i gestori di quei capannelli intorno a uno spettro, a un fantasma.

Non a caso e in risposta alla crisi pressoché inarrestabile dei talk, la brava Alessandra Sardoni  (Tg La7) ha voluto per dir così promuovere una riflessione coram populo, cioè non di nascosto o fra i complici addetti ai lavori, per mostrare, per l’appunto, l’evoluzione dei talk dal ventennio berlusconiano alla stagione dei tecnici fino al renzismo; i diversi gradi  di contaminazione con l’intrattenimento e i loro effetti sulla politica o sui contesti in cui agiscono, o ancora, l’incrocio con le categorie dell’antipolitica, di quello che nella cultura televisiva inglese si chiama “spiral of cynicism”. Il che, tra l’altro, sta a significare un deterioramento  irreversibile proprio dello spirito, della vocazione, della funzione del talk. E indica anche che una parte non insignificante di questo ineludibile declino risiede in quella sorta di  “dagli alla politica tout court perché corrotta” o “basta alla politica perché c’è il berlusconismo col suo conflitto d’interessi” o, ancora, “ben venga la stagione dei tecnici al posto di questi sfaccendati di Montecitorio col loro professionismo démodé o, infine e su tutto, “poniamo termine alla casta”, ha prodotto proprio  l’antipolitica che è bensì la negazione della Polis in sé e per sé, ma colpendo di traverso gli stessi gestori della (non) politica in tv. Col risultato, a volte, di ridurre il ruolo dei conduttori se non a comparse quanto meno a complici, sia pure con una schiacciatina d’occhio o una data di gomito.

I rimedi al declino, per quanto ineluttabile, andrebbero tentati, magari invitando persone intelligenti e preparate o, anche, affrontando argomenti interessanti, o, hai visto mai, tenendo a freno gli impulsi dell’indignato speciale, insomma, conoscendo e facendone partecipe il pubblico dei talk, peraltro sempre più scarso, di quella che si chiama civiltà del dibattito, dell’incontro, e pure dello scontro, ma nel quadro di un rispetto di se stessi. Ma forse è già tardi e allora  vai coll’eccelso professore di latino che spiega all’inclita e al volgo, od ovviamente al Renzi da bacchettare, che non si dice amore ma amor vincit omnia.

Aggiornato il 18 luglio 2017 alle ore 20:43