Giustizia: fra mancate riforme e populismi giudiziari

“Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno! Rivolteremo l’Italia come un calzino! Non esistono politici innocenti ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove. Un dipendente potrà segnalare in maniera anonima un episodio di corruzione a un superiore o alla autorità. In caso di veridicità della denuncia si corrisponde un premio a chi l’ha formulata”.

Da quest’ultima proposta di legge - voluta fortemente dai grillini, che legittima definitivamente la soffiata (“whistleblowing”) istituendone  un fondo di ristoro e un compenso (alla “spia”) pari a una cifra compresa fra il 5 e il 15 per cento delle somme recuperate conseguentemente all’accertamento del danno erariale - alle altre esclamazioni, si fa per dire, la prima di Beppe Grillo, la seconda e la terza di Pier Camillo Davigo, c’è davvero tanta materia per discutere della crisi della giustizia (e della politica)  col suo carico pesante di integralismo giudiziario, di populismo giudiziario, di fanatismo da gogna per gli altri, di giustizialismo a go go e, se si vuole, anche di “fascismo”, almeno nella cornice della discussione attizzata dalla ridicola vicenda del lido di Chioggia, col suo gestore dichiaratamente “fascistone”.

Il fatto è che, sempre a guardarci bene dentro, la voluttà grillina di aprire il Parlamento come una scatola di tonno, ha non poche sinistre somiglianze coi propositi, per esempio di uno come Himmler, nazista, che dei cervelli pieni di idee pericolose, e dunque da spalancare con un apriscatole speciale, leggi martello, aveva fatto il bersaglio preferito delle sue SS. Ma andiamo avanti e ascoltiamo il davigo-pensiero che ha almeno il merito di rimanere coerente da ben oltre i venticinque anni. Data fatidica del manipulitismo di lotta giudiziaria e di governo dei miracolati dalla leggendaria inchiesta. Sarebbe forse esagerato parlare di qualche assonanza  davighiana col pensiero del più puro e duro dei regimi autoritari, cioè fascisti e comunisti, ma certamente quella costante di volere rivoltare un paese da capo a fondo, anche sulla base ideologico-filosofica che non esistono politici innocenti ma non ancora scoperti, non può non destare qualche preoccupazione, anche sullo stato attuale della nostra giustizia.

Una branchia essenziale della Repubblica, scossa al suo interno da micidiali botta e risposta, anche a proposito di Davigo, da un suo collega accusato di “populismo giudiziario”, da un’altra (collega) di avere creato intorno a lui una pericolosissima atmosfera perché “i magistrati che danno davvero fastidio storicamente sono sempre stati eliminati”. Parlare di crisi del settore e delle tante, troppe, pagine di giustizia-ingiusta, è abbastanza retorico, ma sempre necessario per scalfire l’inerzia (che ne è, ad esempio, della separazione delle carriere?) e l’assordante silenzio della politica nei confronti della casta giudiziaria e di fronte, per esempio, a uno scenario da film horror splatter quale viene fuori dalla vicenda Contrada. Che si è fatto anni e anni di carcere - come hanno raccontato “Il Foglio” e la sempre benemerita “Radio Radicale” (Bordin), in base ad accuse false di pentiti e, anche, sull’abbrivio di atteggiamenti e racconti di un suo quasi collega, vedi il mitico Capponnetto, secondo cui Falcone si sarebbe pulito le mani sulla giacca dopo l’incontro a tre con Contrada.

Incontro che non c’è mai stato. Da brivido. In compenso, continua ad esserci una giustizia che sembra persino arretrata rispetto ai fondamenti giuridici nel “Dei delitti e delle pene” dell’immenso Cesare Beccaria, risalente a poco più di duecentocinquanta anni fa. Una mente illuminista e luminosa, grande interprete della ragione, dell’intelligenza, della tolleranza e della giustizia a misura d’uomo. A lui si devono pilastri legislativi come l’abolizione della pena di morte perché “irreparabile e ingiusta”, l’indipendenza del giudice, l’esclusione della tortura, l’eliminazione di pene crudeli, le garanzie negli interrogatori, il “no” alla confisca dei beni e altro ancora. A proposito del “whistleblowing”, invocato dall’immarcescibilmente giustizialista pentastellato, con la soffiata contro i colleghi accusati di corruzione e premiata dal 5 al 15 per cento in caso di veridicità, è assolutamente certificato che, ai grillini, sia del tutto ignoto il capolavoro settecentesco di Beccaria. Nel quale venivano categoricamente escluse dal processo sia la lettera anonima che la delazione. Detta, altrimenti, “whistleblowing”.

Aggiornato il 18 luglio 2017 alle ore 13:13