Renzi e il destino cinico e baro

Uno degli aforismi per cui Giuseppe Saragat è passato, se non alla storia “tout court”, alla storia politica, sta nell’imprecazione, che Indro Montanelli definiva leggendaria, contro “il destino cinico e baro”. Correva l’anno 1953 e alle elezioni di quell’anno il Partito Socialista Democratico Italiano di Saragat - che nel 1948 si era scisso dal Partito Socialista Italiano nenniano sottomessosi al Partito Comunista Italiano - aveva ottenuto un risultato più che deludente, dimezzando i voti. Saragat, come hanno fatto e faranno dopo di lui molti leader sconfitti alle elezioni, inveiva contro un imprecisato responsabile (il destino) di quella cocente sconfitta che, come tutte le sconfitte elettorali, sono in realtà da attribuire anche a quei leader che - come appunto Giuseppe Saragat - non avevano certamente sbagliato la coraggiosa scelta di campo in un mondo spaccato a metà dalla Guerra fredda, ma altrettanto certamente non erano riusciti a convincere gli elettori.

Non è che qui si voglia accomunare Matteo Renzi a Saragat all’insegna di quel mitico aforisma, anche perché Renzi ha avuto reazioni non analoghe, ma pur sempre iscritte in una sorta di analogo giustificazionismo storico che allontana da se stessi ogni colpa, ogni responsabilità e, soprattutto, la scelta delle proprie dimissioni. Il caso di Renzi, e quindi del suo partito, è ancora più grave rispetto al saragattiano destino cinico e baro perché le sconfitte si iscrivono nella fatale doppietta del referendum e delle recenti amministrative. Non a caso Renzi è nei guai e, sempre non a caso, nascono e si moltiplicano nel Partito Democratico gruppi, gruppetti, correnti e sottocorrenti, empiti scissionistici e desideri di “embrassons-nous” (Giuliano Pisapia e Romano Prodi) con l’unico, vero scopo di ridimensionare se non dimissionare l’ex Premier. Dal canto suo, replica a stretto giro di posta che non solo non se ne vuole andare ma che è il segretario di un partito che lo ha eletto e legittimato a quella carica con quasi due milioni di voti. Il che, comunque, lo legittimerebbe a guidare gli iscritti di un partito e non una base elettorale, un popolo vasto di cittadini.

Ma il problema vero, di fondo e che si pone, non da oggi beninteso, allo stesso Renzi, ha un unico e solo nome: l’identità. In questo senso la situazione del Pd è non poco seria proprio per la mancata soluzione della sua identità. Riappaiono, nei momenti di tensione e di insuccessi, le due identità originarie organizzatesi in una fusione non perfettamente riuscita, anzi, e a cui nessun “vinavil” prodiano e nessuna alleanza ampia alla Pisapia può soccorrere, figuriamoci. È arduo scorgere nel partito di Renzi una feconda matrice laica, una strutturata consapevolezza liberal riformista, una compiuta intelaiatura ideale all’insegna del socialismo, riformismo europeo. Dove vai se l’identità non ce l’hai? Altro che destino cinico e baro.

Aggiornato il 06 luglio 2017 alle ore 19:08