Elezioni: chi ha perso è Renzi

È stupefacente come la vulgata mediatica si affanni a cercare indizi di fallimento nel successo domenicale del centrodestra. È un rincorrersi di dietrologie sulle presunte reciproche intolleranze tra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. La tesi è: “Hanno vinto, loro malgrado. Quei due si odiano, perciò non potranno mai stare insieme”. Più che di analisi politologiche si tratta di pie speranze di nemici irriducibili del sentire maggioritario del Paese. Se ne facciano una ragione: l’ideologia post-comunista, temperata dal multiculturalismo terzomondista e dal solidarismo pauperista di matrice cattolica, non fa breccia nella coscienza profonda degli italiani. E se la sinistra ha avuto l’opportunità di accedere al potere, ciò è accaduto soltanto per responsabilità del centrodestra quando ha perso di vista la sua “mission” costitutiva. La cronaca dà conto del tentativo di Matteo Renzi di spezzare il filo rosso che lega Forza Italia al suo bacino di consenso. Ma il Partito Democratico perde ovunque non soltanto perché ha dato cattiva prova di sé nell’amministrazione dei territori. E neanche soltanto per l’eccessivo grado di litigiosità raggiunto tra le varie anime di quell’insieme che è stato l’Ulivo. La prima ragione della sconfitta sta nel mancato sfondamento al centro del Pd che, declinando la vocazione maggioritaria, ha provato a occuparne lo spazio conquistando il ceto medio moderato. Il riposizionamento strategico del partito renziano è stato interpretato come un’Opa lanciata su Forza Italia per sottrarle quel blocco sociale sul quale Silvio Berlusconi ha costruito la sua lunga stagione politica. Il tentativo è fallito non perché Renzi non sia riuscito a raggiungere lo spazio individuato, ma perché l’ha trovato vuoto.

La durissima crisi economica, che ha colpito mortalmente un segmento rilevante dei ceti medi produttivi tradizionali, ha provocato l’estinzione del cosiddetto centro moderato. Differentemente dal Pd, Forza Italia ha percepito il fenomeno di assottigliamento del suo blocco sociale giusto in tempo per correggere la rotta. Lo testimonia il tenore dei discorsi pubblici dei quadri dirigenti forzisti. Le problematiche sulla sicurezza, sull’accoglienza degli immigrati, sull’edilizia popolare di vantaggio per i connazionali rispetto agli stranieri, sull’abolizione degli studi di settore per gli imprenditori e i lavoratori autonomi, sugli incentivi alle famiglie, sono state affrontate nei medesimi toni assertivi propri degli alleati della Lega e di Fratelli d’Italia. Anche la compattezza dimostrata dalla coalizione nell’ultima vicenda amministrativa è frutto di un processo di ricollocamento che ha condotto Forza Italia a cercare consenso nelle aree delle nuove povertà piuttosto che presso la borghesia economicamente e socialmente garantita. A Matteo Renzi questa dinamica è totalmente sfuggita. Valutando la geografia dei partiti con lenti novecentesche ha creduto che, assecondando la sete di potere dei transfughi del centrodestra prima e attaccando frontalmente Forza Italia sul suo stesso terreno dopo, ne avrebbe ricavato un lauto bottino. Dall’eliminazione della tassa sulla prima casa, al Jobs Act, alla riforma della “Buona Scuola”, Renzi ha calcolato di conquistare l’elettorato moderato senza avvedersi del fatto che quell’elettorato era già oltre, alle prese con l’insostenibilità dei costi sociali connessi all’accelerazione selvaggia della globalizzazione mercatista e alle ricadute negative dell’ultimo capitalismo, finanziario e transfrontaliero.

Oggi, il “rottamatore” si trova in mezzo al guado: troppo scarsa la visuale per proseguire, troppo profondo il solco lasciato alle spalle per tornare indietro. Come ne esce? Non è facile prevederlo. Anche perché i tanti nemici che, nel frattempo, si è conquistato a sinistra lavorano alla sua espulsione dal campo per ricomporre uno schieramento unitario con un diverso Pd. Se vuole restare in sella, Renzi deve convincere la classe dirigente del suo partito a seguirlo. In quale direzione? Verso quali obiettivi? Alla fine, sarà proprio la mancanza di prospettiva strategica a segnarne il destino politico. Come Napoleone a Waterloo. Fu improvvido il condottiero a cercare la rivincita in 100 giorni. Altrettanto l’ambizioso Renzi, che ha archiviato in fretta il ricordo del 4 dicembre.

Aggiornato il 28 giugno 2017 alle ore 22:11