Il papa gesuita e una vendetta ritardata

Qualcuno che leggerà questo scritto vorrà attribuire certe mie opinioni, o quelle che gli sembrerà di scorgervi, alla mia età, all’essere oramai “uno di altri tempi”. Faccia pure, ma cerchi di non farsene un alibi per una distrazione rispetto a ciò che scrivo che è, invece, tipica di “questi tempi”.

E, se anche sia d’assai poco rilievo il fatto che io risenta o meno di pregiudizi “del mio tempo”, dirò subito che nel “mio tempo”, che non è il secolo XIX ma, più o meno, la seconda metà del XX, il cosiddetto pregiudizio anticlericale ha toccato il minimo della sua presenza, fino, di fatto, a scomparire. Ma, di fronte a certi interrogativi che la storia impone, la ragione e lo spirito umano non possono certo segmentarsi in pregiudizi e giudizi, valutazioni, constatazioni.

Ma veniamo al dunque. Senza pregiudizi, starei per dire. C’è qualcosa nel populismo moralistico di Papa Bergoglio che mi pare sia fatto pesare soprattutto e, anzi, specificamente, sull’Italia. Bergoglio è argentino. L’origine italiana credo abbia lasciato scarse tracce in certi aspetti della sua cultura. Che è cultura gesuitica e sud-americana. Il suo esser gesuita (il primo Papa gesuita) si manifesta nella sua esigenza primaria di compiacere e non contrastare le tendenze e anche i capricci di chi rappresenta il potere e lo detiene e, magari, ne abusa. Una volta i gesuiti ronzavano attorno ai re, alle regine, ai grandi feudatari, ai governatori, mostrando accattivante indulgenza per ottenerne, comunque, la disponibilità e l’acquiescenza. Il gesuita moderno ha preso atto, e questo sembra l’espressione massima della sua “modernità”, che la sovranità è, almeno pro forma (come del resto una volta il potere della regalità), del popolo.

È il popolo che, magari senza apprezzarlo ed intimamente rispettarlo, come una volta accadeva per i più viziosi monarchi, occorre vellicare, assecondare per impadronirsene, da confessori, come un tempo, o da predicatori e padroni dei media oggi. Ecco, dunque, la tradizionale radice gesuitica del populismo di Bergoglio. Che però ha una carica particolare, anti-Usa e anti-Europa che è propria dei sedimenti della cultura e dello spirito politico latino-americano. Direi, non senza una grossolanità che non mi disconosco: ecco la chiave della politica di Papa Francesco verso l’Italia. Ché una “politica italiana”, per quanto un po’ sgangherata, il Vaticano ce l’ha, anche se non la lascia a divedere come al tempo dell’“unità politica dei cattolici”.

E si vede a proposito della pesante pressione che da parte vaticana si fa sulla questione dei migranti afroasiatici. La chiesa cattolica di Papa Bergoglio è per un’apertura illimitata all’invasione, per un’accoglienza che è un non senso di un Paese pieno di ristrettezze economiche, di condizionamenti, di problemi culturali, in un equilibrio instabile dell’economia e, quindi, dell’occupazione dei lavoratori, con incrinature pericolose, per quanto stupide e inconcludenti, della sua identità nazionale. Dopo aver predicato una “accoglienza” che equivale apertura delle porte ad un’invasione tumultuosa, ora la chiesa bergogliesca pare che voglia fare sentire il suo peso sulla questione del cosiddetto Ius soli. Che, è il caso di rifletterci, non ha magari tanta incidenza sulla condizione dei migranti-invasori, quanto ne ha per i suoi effetti destabilizzanti sulla sorte della comunità nazionale italiana, sulla sua identità e sul concetto stesso di Popolo e di carattere nazional-popolare fondamento della Repubblica.

L’intervento del Vaticano e della Chiesa in tale questione esula dal magistero morale e caritativo. È un vulnus alla stessa entità dello Stato, ben più in là del superamento di quei limiti di reciproco rispetto e convivenza, specie in regime concordatario quale quello preteso dal Vaticano. Si direbbe che stia venendo fuori, guarda caso sotto il pontificato di Bergoglio, ritenuto il più “avanzato” e lontano dalle vecchie concezioni temporalistiche e paratemporalistiche, di una sorda indifferenza, se non di un’aperta ostilità all’Italia come Stato. Può sembrare un’assurdità, ma non è passato troppo tempo da quando l’Unità Italiana, lo Stato nazionale, che era, poi, nient’altro che il Risorgimento, venivano esplicitamente condannati come frutto di una “sacrilega” sopraffazione dei diritti della Chiesa.

Certo è che l’onere catastrofico dell’“accoglienza” dell’invasione viene preteso quale obbligo morale da noi e non, magari da Stati e società che hanno altre risorse e possibilità di provvedervi. Non mi risulta che la Chiesa cattolica osi chiedere che so, al Canada, di aprire i cancelli all’emigrazione messicana e latino-americana. E, semplicemente che dalla Chiesa si pretenda da altri quel che si pretende e si vuole imporre all’Italia. Colpa, certo di una nostra classe dirigente nutrita del sentito dire di bolse elucubrazioni sinistrose e, anch’essa, di una scarsa sensibilità per molti dei complessi valori che fanno degli abitanti di un Paese un popolo ed una nazione.

Siamo dunque in presenza, per mano e mente gesuitica, di una vendetta ritardata, il famoso piatto mangiato freddo, per la “sacrilega” ascesa dell’Italia a Nazione? Sembrerebbe, lo ammetto volentieri, sciocchezza impossibile. Ma il dato obiettivo di un’opera assidua la quale proprio nei nostri confronti la Chiesa, ora che ne è a capo, non dimentichiamolo mai, proprio un Gesuita, finisce per minare aspetti essenziali della nostra identità non è certo il giudizio di un vecchio d’altri tempi. Che altre siano le ragioni di questo “privilegio” di menti cristiane che la Chiesa vuole farci acquistare proprio a noi non mi pare abbia spiegazione più attendibile.

Aggiornato il 27 giugno 2017 alle ore 22:01