Il silenzio (sconcertante) di Mattarella

Quello che troppi salutano come la soluzione, potrebbe diventare il problema. La via d’uscita potrebbe rivelarsi una trappola. E non sono possibilità, ma probabilità. Il patto a quattro, l’alleanza quadripartita tra democratici, leghisti, azzurri e grillini, darà i risultati sperati dai contraenti, non quelli ipoteticamente attendibili dall’intesa.

La puerile esaltazione che ne fanno, non a caso, i soli democratici, segnala che ambiscono ad intestarsene un merito pacificatore tuttavia campato per aria. Se volessero dare una spruzzata di credibilità alla manovra sulla legge elettorale, i partiti che la condividono dovrebbero dire il contrario di quello che dicono, cioè che la legge è un necessitato compromesso deteriore e pertanto, proprio perciò, inidoneo ad accelerare, adesso, la fine della legislatura perché incapace di assicurare ragionevolmente, dopo, una consistente e durevole maggioranza governativa. La legge elettorale in discussione, proporzionale con sbarramento e liste bloccate senza voto disgiunto tra collegio uninominale e lista, è un atto difensivo dell’esistente, non già propulsivo e incentivante di una maggioranza siffatta. L’interesse nazionale e l’interesse dei partiti che così resuscitano la Prima Repubblica in forma di farsa consisterebbero nel rassicurare gl’Italiani e la comunità internazionale che la finanza pubblica è più importante e che dunque il capriccio di correre a votare quattro mesi prima non vale affatto la pena di toglierselo. I partiti contraenti non hanno fornito neppure una ragione per sciogliere le Camere, mentre accampano il pretesto dell’approvazione di una nuova legge elettorale, la quale, è doveroso sottolinearlo, viene giulivamente avallata in ispregio al referendum del 1993 quando la stragrande maggioranza del popolo seppellì la prima Repubblica. Esistono un Governo legittimo e una maggioranza parlamentare: per scombussolare tale assetto e agevolare lo scioglimento del Parlamento, Gentiloni vorrà fare il Quisling di Renzi e dimettersi senza motivo? Mattarella accetterà le dimissioni senza rinviarlo alle Camere? E perché mai il capo dello Stato dovrebbe cavare le castagne dal fuoco allo scalciante segretario del partito che ne ha determinato l’elezione alla più alta magistratura?

Il silenzio di Mattarella, alla luce dei fatti e della gravità della congiuntura politica e parlamentare, francamente sconcerta e risulta incomprensibile. Il bilancio pubblico, la sicurezza dei conti e del debito, se si votasse in settembre, non solo sarebbero (ovvio!) cancellati dal dibattito elettorale, mentre ne dovrebbero essere il cardine, ma verrebbero pericolosamente accollati al nuovo Governo e alle nuove Camere, che avrebbero poco più di due mesi per provvedervi entro dicembre e scongiurare l’esercizio provvisorio (non esattamente un bel biglietto di presentazione per il nuovo Esecutivo). Né basta, purtroppo. Il Parlamento, asseritamente salvifico, che uscirebbe dal voto di settembre, non è affatto certo (anzi!) che esprimerà facilmente un Governo, essendo incerta ope legis la formazione di una maggioranza parlamentare. A parte che un Governo del tutto nuovo non avrebbe neppure il tempo per studiare le carte. Quindi la manovra finanziaria la farà il vecchio Governo in attesa del nuovo? E con quale maggioranza? Si discuterà di bilanci durante le consultazioni prevedibilmente estenuanti? Mattarella, per il bene della Repubblica e per dettato costituzionale, insedierà un suo governo per l’adempimento degli obblighi finanziari? E magari sarà costretto a sciogliere nuovamente le Camere?

Questo è il molto poco tranquillizzante contesto, gravido di conseguenze politiche niente affatto univoche o sperabili. Per quanto egli dia l’impressione d’assistervi soltanto, le difficoltà del parto imporranno a Mattarella di pilotarlo, anche alzando la voce. Intanto tace, mentre dovrebbe parlare.

Aggiornato il 08 giugno 2017 alle ore 22:58