Riina e l’assioma indimostrabile

Salvatore Borsellino, fratello del giudice massacrato con la sua scorta nella strage di via D’Amelio, sostiene che nel riconoscere a Totò Riina il diritto a una morte dignitosa eventualmente fuori dalle mura del carcere, la Cassazione stia pagando la cambiale che lo Stato firmò al capomafia quando gli chiese di eliminare l’ultimo ostacolo alla trattativa tra pezzi delle istituzioni e organizzazione mafiosa.

Salvatore Borsellino, in pratica, coglie la sentenza della Prima Corte della Cassazione su Riina per ribadire ancora una volta la sua convinzione che il mandante della strage di via D’Amelio, e prima ancora di Capaci, cioè il mandante dell’assassinio di Borsellino e Falcone, fu lo Stato deciso ad eliminare i due giudici per continuare a portare avanti la storica trattativa con la Mafia.

Il fratello del magistrato massacrato non è il solo a nutrire questa convinzione. E cioè che lo Stato si sia servito di Riina per eliminare i giudici che minacciavano di svelare l’esistenza della trattativa tra istituzioni e grande criminalità organizzata. Anche una parte minoritaria ma consistente della stessa magistratura condivide questa convinzione. E continua ad indagare per fare luce su una ipotesi che ricorre spesso anche nella parole del Presidente del Senato, Pietro Grasso, e che, sicuramente, turba i pensieri dello stesso Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, fratello di Piersanti, una delle prime vittime eccellenti della mattanza mafiosa degli anni dello stragismo corleonese.

La tesi dello Stato che arma la mano di Riina per compiere stragi dirette a consentire di trattare con lo stesso Riina può apparire paradossale. Ma non lo è affatto. Perché nel corso degli anni si è diffusa progressivamente nella società italiana fino a radicarsi in maniera stabile e a conquistare il rango di assioma che non ha bisogno alcuno di dimostrazione. Ripercorrendo la storia del nostro Paese, dallo sbarco americano in Sicilia del ’43 alla strage di Portella della Ginestra, dalla morte del bandito Giuliano agli anni del potere politico-mafioso a Palermo, appare evidente come un rapporto tra pezzi dello Stato e mafia ci sia stato. Ma il velo di segretezza che nascondeva quei rapporti si è strappato. E pezzi di verità, sia pure tra infinite difficoltà, sono venuti alla luce. Dimostrando come nel secondo dopoguerra la mafia sia cresciuta approfittando delle circostanze di politica interna e internazionale che favorivano l’esistenza di una sorta di terra di nessuno tra legalità e criminalità.

Ma dalle stragi di Capaci e via D’Amelio ad oggi tutte le indagini sulla trattativa e sull’assioma ribadito dal fratello del giudice Borsellino non hanno prodotto risultati tangibili. Con il risultato che dall’assioma indimostrato è derivato un secondo assioma basato su un sillogismo semplice ma tragico: uno Stato che tratta con il crimine è uno stato criminale in cui è impossibile distinguere tra il bene e il male e in cui ogni uomo dello Stato può nascondere una faccia mafiosa. Il sospetto generalizzato non è l’anticamera della verità, come dicevano i gesuiti. Ma è la morte della democrazia.

Aggiornato il 08 giugno 2017 alle ore 23:29