Abuso delle intercettazioni: falsi miti e responsabilità dei giornalisti

Con il caso Consip è prepotentemente tornata alla ribalta, per l’ennesima volta, la questione dell’abuso delle intercettazioni telefoniche.

Alte cariche istituzionali, personalità della politica e del giornalismo, non hanno mancato, negli ultimi giorni, di esprimere disappunto ed auspici di riforma. Sorvolando sulla captazione dei colloqui tra avvocato e cliente, aberrazione da cortina di ferro che non necessita di particolari spiegazioni, chiunque sia intervenuto in materia, si potrebbe dire il pensiero diffuso, si è focalizzato su fuga di notizie, divulgazione di atti coperti dal segreto e coinvolgimento di soggetti estranei al procedimento, devianze gravi ma evidenti ed ormai piuttosto note, trascurando l’aspetto più effettivamente nocivo della faccenda: la pubblicazione “selvaggia” delle conversazioni intercettate ad onta di un sistema che ne regola le modalità.

L’opinione dominante muove da gravi errori di fondo, che è bene portare allo scoperto.

1) Non esiste una disciplina della pubblicazione delle intercettazioni ed è necessario un intervento normativo ad hoc.

Falso. Tutto è migliorabile ma la norma c’è. Ai sensi dell’articolo 114 del Codice di procedura penale gli atti del procedimento penale, diversi dagli atti del giudizio (dunque gli atti del fascicolo delle indagini preliminari, le ordinanze che applicano misure coercitive, ad avviso di chi scrive perfino gli atti - ipotesi più di scuola che pratica - del fascicolo del difensore) non possono essere pubblicati; in assoluto finché permane il segreto istruttorio, nei limiti specificati appresso una volta venuto meno.

Le “intercettazioni” non fanno eccezione, essendo atti di indagine. Tanto più che ciò che viene diffuso sui media sono i cosiddetti brogliacci di ascolto, ossia le trascrizioni dei dialoghi captati effettuate dalla polizia giudiziaria, con quel che ne consegue in ordine alla parzialità delle stesse. Va ricordato che una volta avviato il giudizio, le conversazioni intercettate, selezionate su indicazione di parte, vengono ascoltate e trascritte da un perito ed il risultato di tale attività è la prova utilizzabile dal giudice. Non è infrequente che il contenuto della perizia non coincida, con rilevanza decisiva, con quanto redatto degli operanti. La violazione del divieto costituisce reato ex art. 684 c.p. ed illecito disciplinare per determinate categorie professionali (giornalisti in primis) ai sensi dell’articolo 115 c.p.p..

2) Venuto meno il segreto istruttorio non ci sono limiti alla pubblicazione degli atti.

Falso. Cessate le esigenze investigative gli atti di parte possono essere pubblicati solo in forma riassuntiva. Il copia e incolla è vietato. Recentemente le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione hanno affermato (sentenze n. 3727 del 25.2.2016 e n. 15815 del 5.7.2016) che brevi stralci possono essere testualmente riprodotti, purché non siano idonei ad alterare il convincimento del giudice che tratterà la causa. Ma è la proverbiale eccezione che conferma la regola. In gran parte dei casi, oltretutto, i virgolettati sono decine di righe, non semplici frammenti.

3) I limiti alla pubblicazione delle intercettazioni debbono essere posti a tutela della reputazione e della riservatezza dei terzi.

Inesatto. L’immagine ed il privato altrui vanno salvaguardate ma il primo soggetto ad essere protetto dal divieto in questione è il giudice. E di riflesso l’imputato. Il processo moderno prevede che chi giudica, professionista o uomo del popolo che sia, non conosca gli atti di parte prima del giudizio. Condizionamenti pregiudizievoli, nel senso letterale del termine, non sono ammessi. E quello che non entra dalla porta (il fascicolo dibattimentale, nel quale gli atti di indagine non possono essere introdotti) non può transitare dalla finestra (articoli di stampa, videoclip diffuse televisivamente o via Internet)

4) Le conversazioni intercettate a non dover essere pubblicate sono quelle non penalmente rilevanti.

Inesatto. Ferma restando la tutela dei terzi, se il divieto serve ad evitare pregiudizio, la captazioni da non diffondere sono proprio quelle in grado di incidere sull’esito del processo.

5) Il “problema” della pubblicazione degli atti non riguarda i giornalisti.

L’errore più grande. Nessuna libertà è assoluta, nemmeno quella di manifestazione del pensiero. Nozione elementare, si insegnava nell’ora di educazione civica quando ancora era materia da scuola dell’obbligo. En passant, lo ha ricordato Vladimiro Zagrebelsky su “la Repubblica” del 21 maggio. I giornalisti devono rendersi conto di non essere sacerdoti di un culto e soggetti alla legge come tutti. Se la norma non piace si dica apertamente che la si vuole cambiare. Non, affermando il falso, che non esiste, o, peggio, che la si può impunemente violare. Del resto, oltre alle citate disposizioni del codice di procedura penale, esiste il recente Testo Unico dei doveri del giornalista che all’art.2, comma 2, impone l’osservanza delle norme di legge poste a salvaguardia dei diritti fondamentali delle persone - quale quello ad un processo equo - ed in materia di cronaca giudiziaria e processi televisivi usa l’espressione “riportare il contenuto” degli atti di indagine (articolo 8, comma 2) così escludendone la pedissequa riproduzione. Si badi bene, non si tratta di omettere una notizia ma di diffonderla secondo determinate modalità. Per informare correttamente sui risultati di indagine, su ciò che ha detto una persona a conoscenza dei fatti o un indagato, non è necessario riversare l’atto, basta il discorso indiretto. È vero che il riassunto o la perifrasi - è l’obiezione più frequente - possono essere infedeli ma è la professionalità del giornalista, intesa come capacità di scrivere e correttezza deontologica, la garanzia contro il travisamento.

Cani da guardia del potere? Sacrosanto. Ma quis custodiet custodes? La difesa cieca, a tratti fanatica, della libertà di informazione può portare a conseguenze gravi, per l’equilibrio democratico. In primo luogo perché può alterare impropriamente - è sotto gli occhi di tutti - lo scenario politico. Su un piano più profondo, compromette l’amministrazione della giustizia e ne produce una percezione distorta. I valori del giusto processo, le “regole del gioco”, come si usava dire, non sono meno importanti della libertà di stampa.

È in atto, pochi lo hanno colto, un fenomeno di delegittimazione della magistratura giudicante. Le assoluzioni (o qualunque risultato non coincidente con la prospettazione offerta nel momento genetico della vicenda giudiziaria) vengono percepite, dalla maggioranza dell’opinione pubblica, come casi di denegata giustizia, in quanto difformi dalla rappresentazione mediatica iniziale (quindi inevitabilmente parziale) del caso. La giustizia non è più quella dei tribunali ma dei mass media. Questo finisce per condizionare gli organi giudicanti e le scelte di politica criminale. Chi ha la funzione - sacra, lo si ripete - di informare deve comprendere la responsabilità che tale compito richiede. Spacciare per censura di regime la pretesa del rispetto di limiti di legge, concepiti a tutela di altri valori fondamentali, è una mistificazione.

Aggiornato il 07 giugno 2017 alle ore 22:26