La (non) politica e i talk-show

venerdì 2 giugno 2017


Non c’è niente da fare per la scomparsa, da anni e anni, della politica. La sua morte ha prodotto delle imitazioni, delle surroghe in televisione e tuttavia... Tuttavia è arrivato il gong squillante che segna, o dovrebbe segnare, uno stop ai talk-show dedicati alla politica. È scoccato dalla cattedra più alta dell’autorevolezza, cioè dal “Corriere della Sera”, ma quel che più conta è che ne è autore nel suo “A fil di rete”, Aldo Grasso, uno dei nostri più seri e preparati analisti di mass media. Un maestro, non c’è dubbio. Speriamo anche dei più ascoltati, ma non ne siamo così sicuri.

Il fatto è che si parla esplicitamente di “degenerazione dei talk” giunta ad una sorta di punto di non ritorno, a meno che siano tempestivamente trovati mezzi e modalità di correzione radicali come il far pagare ad ogni partecipante al talk-show una vera e propria tassa che “aumenta in proporzione alle ore che passa in video, un meccanismo che serve solo a scompaginare il sistema degli inviti, finché non ci sarà una distribuzione dei carichi di presenza”. Come non essere d’accordo? E come non averne le tasche e le orecchie piene di urla, insulti e frasi sconclusionate; tanto più che nella “nostra televisione il genere praticato è proprio il talk-show e gli effetti sono ormai giunti alla degenerazione (sempre la stessa compagnia di giro, impossibilità di approfondire un qualsiasi concetto, propensione alla lite per conquistare visibilità)”.

Dunque, una bella tassa agli invitati. La proposta invero geniale riguarda, giustamente, non soltanto i politici anche se la preponderanza degli introiti deriverà ovviamente dai politicanti sempre in scena per sette giorni (e notti) di seguito, con un ulteriore nota negativa: che sono sempre gli stessi, componenti di un’unica, deprimente compagnia di giro che ha capito una sola cosa: che “il talk non funziona più come condivisione di pensiero, conoscenza, discussione, esercizio di libertà. Serve soltanto all’interessato per mettersi in mostra, per entrare nel circuito delle persone conosciute, per fare politica o esercitare indirettamente la propria professione”. Mostrarsi, farsi conoscere e fare politica sono perciò le tre vie di marcia che seguono i tanti, troppi, rappresentanti di partiti che danno spettacolo in televisione.

Uno spettacolo forse unico al mondo dato che in questa Italia i partiti non ci sono più, sono morti e defunti e, almeno in teoria, non dovrebbero esistere i loro rappresentanti, a meno che non ci sia l’ospitata nel talk che produce una sorta di resurrezione dal regno dei morti (la politica, appunto) ma in peggio, molto in peggio, degna di un film dell’orrore. Ma vorremmo aggiungere una postilla al ragionamento del tutto condivisibile dell’“A fil di rete” del “Corrierone”. Perché è assolutamente vero e verificabile quotidianamente che il film della Polis e della Civitas in onda sul piccolo schermo è uno degli esempi più drammatici dello stato comatoso in cui versa la (non) politica di oggi.

Ma ci sia consentito un appunto: e i conduttori dei talk-show? Ci sono o ci fanno? Sono o non sono parte di questa pellicola il cui unico vantaggio è che si può interrompere, cambiando semplicemente canale. Intendiamoci: il conduttore di talk è da invidiare, si gode uno spettacolo unico nel suo genere, anche perché è il regista di una serie che lo rende automaticamente al di sopra dei partecipanti, il che è pur sempre una bella soddisfazione. Ma a noi, chi ci pensa? Basterà una tassa?


di Paolo Pillitteri