La vittima illustre di Manchester: l’integrazione

La belva di Manchester ha un volto e un nome. Si tratta di Salman Abedi. Il giovane ventiduenne era cittadino britannico di origini libiche. La sua famiglia si era trasferita nel Regno Unito per sfuggire alla repressione del dittatore Gheddafi. Salman è nato in Inghilterra, terzogenito di quattro figli; è cresciuto in un’accogliente villetta di mattoni rossi; ha frequentato la scuola come i suoi coetanei inglesi e si è iscritto alla facoltà di Economia della locale University of Salford. Un percorso normale da figlio di una famiglia borghese che potrebbe essere preso a modello d’integrazione riuscita.

Eppure Salman ha dichiarato guerra al Paese che gli ha dato i natali e alla civiltà che lo ha accolto. Com’è stato possibile? Gli investigatori, solo dopo la strage, hanno scoperto che il giovane era stato in Libia, l’ultima volta poche settimane prima di farsi saltare in aria. Si era fatto crescere la barba e girava per le strade del suo quartiere dove i vicini lo avevano sentito invocare Allah perché punisse gli infedeli. Nessuno gli ha torto un capello. Nessuno, agenti dell’intelligence compresi, gli ha chiesto conto del suo odio.

Salman è stato protetto dalla folta comunità di libici che vive a Manchester. Di certo il ragazzo ha avuto rapporti con Mohammad Abdul Malek, l’imam capo della “Muslim Youth Foundation” che, ironia della sorte (sarà un caso?), dista pochi metri dal luogo della strage. Malek, il “sant’uomo” che, intervistato da Lorenzo Cremonesi del Corriere della Sera, non si fa scrupoli ad ammettere di essere un seguace dei Fratelli Musulmani. E i genitori? Per sfuggire a Gheddafi hanno trovato riparo in Gran Bretagna. Ma, sarà stata la nostalgia di casa, morto il tiranno sono tornati in Libia. Se Salman è la risultante dei valori appresi in famiglia, c’è da pensare che i coniugi Abedi abbiano solo finto di accettare lo spirito della terra che li accoglieva. Ed è proprio questo che deve interrogarci. Il punto è il modello d’integrazione. Come il caso di Salman dimostra non c’è nessun appiglio sociologico a cui aggrapparsi per sfuggire al problema. Salman non era il poveraccio diseredato che decide di radicalizzarsi per reazione a un clima comunitario ostile. Non c’è storia d’emarginazione nel suo passato. Un’esistenza fatta di buone scuole, di spensierata vita sociale con i coetanei, di passione per il calcio e di tifo per la squadra del cuore: lo “United”. Salman: non un disperato di una banlieue, ma un giovane con un futuro professionale che ha scelto deliberatamente di rispondere al richiamo di un’ideologia della morte generata da un’interpretazione testuale di un credo religioso. Si dirà: non tutti i musulmani sono terroristi. È vero. Ma come si fa ad essere sicuri che non lo diventino? Il dubbio è legittimo.

L’integrazione come viene praticata in gran parte d’Europa non funziona. L’idea che si possano accogliere masse di musulmani lasciando loro la libertà di trapiantare nel contesto occidentale il complesso delle tradizioni, dei costumi e dei valori delle terre d’origine è fallimentare. Chi bussa alla porta dell’Occidente cristiano e democratico deve essere disponibile a condividerne quanto meno le regole, i valori fondanti e gli stili di vita praticati. Non c’è alternativa per la nostra sicurezza. Non è solo questione di bombe ma anche, banalmente, di come possano vestirsi e di chi vogliano innamorarsi le donne dell’Islam. Se i loro uomini sono amorevoli compagni di vita o inflessibili padroni, quando non spietati aguzzini. Perciò, non dovrebbero essere tollerate le “isole franche” dove l’unica legge che si rispetta è la Shari’a. Lascia perplessi il fatto che, ancora una volta, contro il fanatico di turno che invoca il nome di Dio per giustificare il suo atto scellerato, non si elevi forte la voce di un altro Islam, pacifico e tollerante. Le comunità musulmane dovrebbero scendere in strada a manifestare un’opposizione intransigente contro il radicalismo sanguinario dei jihadisti. Invece, assistiamo al frusto rito degli scarni comunicati di solidarietà politically correct. Fin quando non ci sarà una scelta inequivocabile di lealtà sociale da parte di queste comunità, nessuna integrazione avrà successo.

Aggiornato il 25 maggio 2017 alle ore 12:58