Perché Minzolini non è solo un caso

Non c’è bisogno di agiografie, per carità; e neppure di lodi sperticate, figuriamoci. Eppure è stato alquanto laborioso trovare su qualche “giornalone” cosiddetto indipendente, a parte rari casi, un ritratto quantomeno obiettivo di un giornalista e parlamentare come Augusto Minzolini, che rimane pur sempre uno dei nostri più illustri operatori della carta stampata e del Tg1, e non soltanto come sviluppi di carriera. Il fatto è che l’intera questione che lo riguarda, passata sotto il nome di “caso”, ci racconta un qualcosa che col caso ha ben poco a che fare; non tanto, o non soltanto perché un giornalista come lui non poteva, non può, sfuggire a quella che chiamiamo riduttivamente “invidia”, aumentata peraltro dalla sua entrata in Senato nel centrodestra ma è, appunto, per questa sua collocazione politica che andrebbero ricercati altri motivi, altri temi, che sono inevitabilmente emersi.

È un fatto che schierarsi dalla parte del Cavaliere non è sempre un buon viatico, tanto più se si osserva il tritacarne per anni inesausto proprio nei confronti del leader di Forza Italia. E nelle puntute critiche contro Minzolini, fra gli attacchi virulenti dei giustizialisti in servizio permanente effettivo e le velate critiche di Raffaele Cantone alla decisione del Senato, è facile rileggere quello che potremmo definire semplicisticamente il vuoto del garantismo che, abbinato all’evanescenza della politica, sta rafforzando l’unico potere che conta in Italia, quello della magistratura. Non lo diciamo noi, peraltro da decenni, ma lo conferma con la sua autorevolezza e la sua storia uno come Luciano Violante, in una lectio magistralis all’Università di Pisa dove ha esortato a non fare del potere giudiziario la nostra Magna Carta.

Fin troppo facile osservare che Violante è stato, anni fa, fra i più autorevoli propugnatori di una simile stortura costituzionale, ma siccome la storia è maestra della vita (e della politica) è salutare per noi tutti la svolta violantiana. Dato e non concesso, comunque, che a quella lectio, non a caso magistralis, ne segua qualcosa di aderente ai suoi principi. Qualche dubbio è lecito, se non necessario, proprio dalla sintesi della vicenda di Minzolini la cui fine è tanto più sollecitata dai giustizialisti di sempre e dagli “invidiosi” di oggi, quanto più è indirizzata al target più grosso ovvero alle sue dimissioni definitive (peraltro confermate dallo stesso), ma intorno alle quali è un florilegio di insinuazioni, di non velate accuse di ritardi voluti, di rinvii furbeschi e così via.

È di nuovo in bella mostra il campionario di quello che definire giustizialismo appare ormai insufficiente se non lo si abbina alla policy in un matrimonio che dura da un quarto di secolo e che - detto papale papale - altro non è che l’uso della giustizia a fini politici. Un uso e un abuso, ovviamente, in misura così larga e profonda che ha reso cieca una parte importante sia di senatori che di mass media nella misura in cui la deliberazione del Senato a suo favore è stata intesa, né più né meno, come una vergognosa disobbedienza alla neo “Magna Carta dell’etica pubblica” e un insulto della casta corrotta all’Italia degli onesti.

Vedremo come andrà a finire in Senato questo caso che, come s’è visto, va ben oltre il personaggio, anche e soprattutto perché investe uno dei principi cardini della democrazia rappresentativa, ovverosia la sovranità di Camera e di Senato che, per dirla con un padre costituente come Umberto Terracini, hanno il diritto-dovere di giudicare - ha scritto proprio così - della permanenza o meno di un componente. Su questo sfondo si muove il Congresso del Partito Democratico e ha ragione da vendere il nostro direttore quando ne osserva oggettivamente le frantumazioni e le non poche divaricazioni che renderanno sempre più perigliose le sorti renziane, e non solo.

Frantumazioni e divisioni non casuali e dalle lontane origini, fin da quando, se non prima, quel partito teorizzò e praticò l’uso politico della giustizia, in sostanza dell’accusa e dei Pm, sposando e incentivando le tesi di quei magistrati (molti dei quali finiti nelle liste piddine) secondo cui si deve usare il codice (etico) penale contro la “casta” corrotta e invisa per ragioni ideologiche, trasformandola così in un bacino di potenziali criminali. Aiuto!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:56