I Trattati di Roma e il destino di un’idea

L’Unione europea celebra i sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma con cui si istituiva la Comunità Economica Europea (Cee). Comunque la si pensi su questa Europa, è un giorno importante. Quel progetto di unificazione, sognato dai padri fondatori, non si è ancora compiuto del tutto. Tuttavia, bisogna riconoscere che se gli ultimi sessant’anni sono stati tempi di pace lo si deve anche all’esistenza di una casa comune, sia pure incompleta, degli europei. Perciò, niente pentimenti.

Oggi, intorno allo stesso tavolo si riuniscono i rappresentanti dei 27 Paesi che nel corso dei decenni hanno aderito all’Unione europea. Non ci saranno i delegati britannici per le note ragioni connesse alla Brexit. Non se ne faccia per questo un dramma. Ciò che invece deve riguardare l’odierna celebrazione è ben altro: è in gioco un modello di Unione che non piace ai suoi cittadini. I Trattati del 1957 non si spingevano al di là dell’orizzonte segnato dall’implementazione degli scambi commerciali, dall’abolizione dei dazi, dalla realizzazione di un’unione doganale e dalla libera circolazione, al suo interno, delle persone. Nel corso dei decenni, però, si è ecceduto finendo a occuparsi ossessivamente di formaggi, zucchine e vongole a danno delle grande idee riposte negli archivi di Bruxelles.

L’Unione si è trasformata in un’entità sovraordinata ai singoli Stati, troppo soffocante per le aspirazioni di libertà delle persone e delle comunità. Abbiamo incolpato di ciò la Germania della signora Angela Merkel. Ma sarebbe stato più onesto ammettere che il male di cui soffre l’odierna Unione viene da lontano ed è la scomparsa di ogni aspirazione egemonica. Già all’inizio del Novecento veniva eccepita la progressiva perdita di valore dei princìpi europei. Per secoli il Vecchio Continente aveva imposto il suo comando al mondo: ciò che accadeva in Europa era destinato a segnare la vita nel resto del pianeta. Parliamo di un’egemonia che non è stata solo economica e militare, ma anche scientifica, tecnologica, spirituale, culturale. A un certo punto, nello scorso secolo, la vecchia Europa ha smesso di fare il suo mestiere attendendo che il centro di comando si spostasse altrove: prima oltre Atlantico, poi verso la costa asiatica del Pacifico.

Scriveva nel 1930 José Ortega y Gasset: “La vita umana, per sua stessa natura, deve essere rivolta a qualcosa, a un miraggio, a un’impresa gloriosa o umile, a un destino illustre o volgare”. Vale lo stesso per gli Stati. Ora, comandare vuol dire assegnare un compito alle persone, instradarle sulla via del loro destino. Qual è dunque il comando odierno dell’Europa? Sono forse i chilometri di carta della Gazzetta Ufficiale dell’Unione su cui scorre un oceano infinito di regole e regolette? L’Europa o è idea, o non è. Ignorare questa verità significa spalancare le porte ai negazionisti dell’unità possibile, significa tornare alla nostalgia per le piccole patrie. Tuttavia gridare, come fanno i progressisti: “Ci vuole più Europa” è pura retorica propagandistica.

Nelle condizioni date, avendo il Vecchio Continente rinunciato a esercitare la sua egemonia, sostenere che più Europa sia la soluzione conduce solo a desiderare un market più grande con gli scaffali occupati da schiere di consumatori al posto delle merci. L’Unione non la fa solo il mercato. Ciò che può tenerci insieme è riconoscersi in comuni radici spirituali. Senza di esse mai vi potrà essere una comune politica estera, e meno ancora, un unico sistema di difesa. Di là dalla necessità di rinegoziare i trattati vigenti, i capi dei governi riuniti a Roma dovrebbero preoccuparsi di verificare se vi sia una condivisa visione del mondo dalla quale far scaturire una comunità di destino. L’aver negato, in passato, ogni riferimento alle radici giudaico-cristiane dell’Europa non è stato un rendere omaggio a un preteso spirito laico.

La verità è che questa Unione è attraversata da una linea di faglia etico-religiosa che la divide, separando la parte condizionata dalla tradizione cattolica-apostolica-romana da quella plasmata sui precetti della morale luterana-calvinista. Queste realtà configurano due modelli di cittadinanza, geneticamente confliggenti. Di abbattere questo diaframma ci si dovrebbe occupare oggi, lontani dalle telecamere e dai flash dei fotografi.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:56