Il populismo rettamente inteso

venerdì 17 marzo 2017


La buona politica non deve mai tentare di farsi popolare. Il popolo invece deve tentare di diventare politico. In mezzo a questi due imperativi la democrazia catalizza il populismo, sebbene non sempre e non necessariamente. Il populismo, come nome e come fenomeno implica, perciò, un significato negativo. Infatti consiste nell’allontanamento dalla politica rettamente intesa e nell’avvicinamento all’antipolitica, coscientemente oppure no. La giusta politica, a differenza dell’antipolitica, che ne costituisce una deviazione fino a configurarne il contrario, ha per oggetto gl’interessi duraturi del popolo, che spesso sono i meno apparenti e percepiti. Quando la democrazia non funziona o mal funziona, il popolo stesso, maggioritariamente, diventa populista, per così dire. Si acceca con le sue stesse mani, mentre crede di spalancare gli occhi. Il caso più clamoroso della storia resta la Germania, il cui popolo colto e civile fu portato a credere e credette di salvarsi affidandosi a un criminale demagogo. Allo stesso livello, benché diversi, sono i casi della Russia, della Cina e delle altre nazioni trascinate o spinte a forza nel comunismo da benintenzionati e malintenzionati delinquenti. Fin dal V Secolo, da Erodoto, che teorizzò le tre classiche forme di governo, sappiamo che la democrazia tende a degenerare e a diventare demagogia, anche sfrenata.

Perciò le Costituzioni liberali, generalmente parlando, mentre istituiscono il sistema democratico, tentano d’imbrigliarlo mediante la divisione e limitazione dei poteri, in modo che le tendenze populiste, insite nella democrazia, non trasmodino in pura demagogia. Il dramma che recitano questi tre attori: la democrazia, il populismo, la demagogia, ha la trama imprescindibile del consenso e dei voti. Il governo del popolo è necessariamente basato sugli elettori, cioè sugli adulti maggiorenni che la legge presume consapevoli, sebbene sempre più disinteressati al loro diritto di scegliersi il parlamento e il governo. Gl’interessi duraturi del popolo vanno quasi sempre, salvo eccezioni straordinarie, oltre l’orizzonte temporale di una o due tornate elettorali, con l’ulteriore difficoltà che nel frattempo si affaccia al voto una generazione di elettori con nuovi, differenti ed anche opposti, interessi contingenti mentre gl’interessi dei minori e dei nascituri non ricevono affatto l’attenzione che meriterebbero.

Il “Dizionario di politica” di Norberto Bobbio e Nicola Matteucci registra la voce “populismo” di Ludovico Incisa, che lo definisce così: “Possono essere definite populiste quelle formule politiche per le quali fonte precipua d’ispirazione e termine costante di riferimento è il popolo considerato come aggregato sociale omogeneo e come depositario esclusivo di valori positivi, specifici e permanenti” e aggiunge: “Si è detto che il populismo non è una dottrina precisa, ma una ‘sindrome’”.

Però i valori positivi, specifici e permanenti del popolo, non sono affatto tali per il populismo, tant’è che i movimenti prima o poi battezzati populisti sorgono sempre in contrapposizione ai partiti e all’establishment accusati proprio dai populisti, sedicenti oppure no, di trascurare e anzi di contrastare quei medesimi valori. Quindi sembra appropriata la definizione del populismo come sindrome anziché dottrina. Ma sindrome di che cosa? In medicina la sindrome è costituita da un complesso di sintomi provocati anche da cause diverse. Per Cicerone non basta un agglomerato d’individui a fare un popolo, ma è decisivo il consenso sullo stesso diritto e la comunanza d’interesse. Dunque il populismo nostrano (che, attenzione, risulta ben distribuito tra quasi tutti i partiti e loro elettori!) è forse il sintomo della profonda frattura degl’Italiani che non si sentono più accomunati da interessi nazionali convergenti o largamente condivisi; è forse la sindrome della cecità politica e dell’indifferenza morale degl’Italiani di fronte agli interessi spirituali e materiali che solo la libertà assicura, essendo l’unico vero bene comune; è forse la prova che le pulsioni a legiferare e governare con provvedimenti socialmente pericolosi o addirittura distruttivi prorompono dalla società e vanno consolidandosi come apodittiche verità politiche.


di Pietro Di Muccio de Quattro