Il Partito di Renzi camuffato

Dopo la conclusione della tre giorni di dibattito del Lingotto di Torino ora sappiamo che il Pd di Matteo Renzi è un partito che non sa esattamente dove andare e che, nel timore di rinnovare l’errore da cui è nato il disastro del 4 dicembre, non ha il coraggio di assumere l’unica identità vera e reale che gli è rimasta.

L’incertezza sul dove andare è emersa con chiarezza dagli interventi di Dario Franceschini e di Sergio Chiamparino. Il primo ha proposto un’alleanza stabile con le forze moderate ipotizzando una sorta di ricostituzione non dichiarata della vecchia Democrazia Cristiana con tanto di occupazione definitiva del centro della scena politica del Paese e del ruolo di asse portante del sistema. Il secondo ha prospettato l’esatto contrario, sostenendo la necessità di recuperare il rapporto con gli scissionisti della sinistra e con l’ala del partito che si oppone a Renzi nella prospettiva di ridare al Partito Democratico la funzione di catalizzatore dell’unità di tutte le forze progressiste. Il compito di trovare un punto di compromesso tra queste due opzioni alternative lo avrebbe dovuto svolgere il candidato al ritorno alla segreteria Matteo Renzi. Ma l’ex Premier non ha neppure tentato di abbozzare una sintesi e ha preferito lasciare aperta la questione strategica delle future alleanze puntando sulla nuova definizione della identità del Pd che non è più quella dei reduci e neppure quella dell’uomo solo al comando, ma è quella del partito dei quarantenni eredi di una tradizione defunta e destinati a costruire una nuova storia.

Il punto di maggiore debolezza della ripartenza renziana avviata al Lingotto pare proprio questa riproposizione in salsa collettiva della rottamazione delle vecchie generazioni e della conquista del potere all’interno del partito non di un solo e incontrastato leader, ma dell’intera categoria dei quarantenni.

Naturalmente a nessuno è sfuggito che il potere ai quarantenni è solo un modo per dimostrare l’intenzione di Matteo Renzi di correggere la sua vocazione al comando solitario e la sua conversione al principio della gestione collettiva. Ma i quarantenni di Renzi non hanno nulla in comune con i quarantenni democristiani del Patto di San Ginesio che avviò il processo di sostituzione della vecchia guardia della Dc con una nuova generazione di dirigenti. Quelli di San Ginesio (i Forlani ed i De Mita) erano gente esperta che operava in un quadro politico fatto di assolute certezze nazionali ed internazionali (il centrosinistra irreversibile e l’atlantismo altrettanto irreversibile) e non avevano altra preoccupazione che procedere rinnovando dall’interno la Dc. Quelli del Lingotto non hanno ancora una identità propria, debbono tutto a Renzi e sono costretti a operare in un quadro nazionale e internazionale in cui l’unica loro certezza è la dipendenza dal leader. Quest’ultimo, in sostanza, ha usato i quarantenni per nascondere che l’unica identità del nuovo Pd è quella del partito personale del leader. Che teme di esibire la trasformazione del Partito Democratico nel Partito di Renzi, ma che sa fin troppo bene come senza la sua faccia il nuovo partito non abbia alcuna identità.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 19:54