Alle radici del protezionismo

Nei tempi lunghi, diceva John Maynard Keynes, saremo tutti morti. E quindi, applicando la battuta al mondo d’oggi, non potremo mai vedere il momento in cui il miracolo economico cinese, basato sui bassi costi del lavoro e sulla possibilità di produrre merci in grado di stroncare ogni forma di concorrenza occidentale, avrà dato vita in Cina e nei Paesi del Terzo Mondo turbocapitalista ad una classe borghese ampia, forte e desiderosa d acquistare i costosi prodotti americani ed europei.

Questo processo potrà anche essere accelerato, come sostengono i fautori della libertà di commercio che contestano il protezionismo di Donald Trump. Ma, in attesa della nascita e del consolidamento della borghesia nei Paesi dove si produce a basso costo, provoca uno spostamento progressivo della ricchezza dai Continenti dove la rivoluzione industriale è avvenuta da due secoli a quelli dove è ancora in corso e deve ancora trasformare contadini e proletari in ceto medio.

Questo spostamento di ricchezza, ovviamente, non colpisce la finanza internazionale che prospera proprio sul passaggio del denaro da un Continente all’altro e sostiene le grandi multinazionali che utilizzano i bassi costi orientali per invadere con prodotti fortemente concorrenziali i mercati occidentali. Ma colpisce il ceto medio europeo e nordamericano che si trova senza lavoro perché le industrie in cui erano occupati non sono in grado di sostenere la concorrenza o si affrettano a delocalizzarsi per poter usufruire anche loro dei bassi costi di produzione dei Paesi dove la rivoluzione industriale è ancora all’inizio.

La spinta al protezionismo nasce, dunque, dal ceto medio una volta produttivo ed ora depauperato che cerca di difendere la ricchezza ed il benessere raggiunti nel passato e non si vuole arrendere alla prospettiva di lasciare in eredità ai propri figli il ritorno alla povertà ed alle difficoltà dei loro antenati. Il problema della classi dirigenti occidentali è di trovare il giusto compromesso tra gli interessi globalizzati della finanza, che per sua natura è cosmopolita e non vuole confini e barriere di sorta, e le esigenze di una società civile che ha come unica garanzia di conservazione di un minimo di stabilità la prospettiva di piazzare i propri figli nelle strutture sempre più ipertrofiche dello Stato. È possibile trovare questo punto di equilibrio? Solo a condizione di non ideologizzare né il globalismo e neppure il protezionismo, ma operare con il massimo del realismo politico. Facile a dirsi, ma drammaticamente difficile a farsi!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:57