Abruzzo: un dramma  che non conosce fine

Strade interrotte, paesi isolati, acqua ed energia elettrica che continuano a mancare. A dieci giorni dalle prime nevicate l’Abruzzo è in ginocchio. E non c’è verso di rimetterlo in piedi. La gente di quei luoghi, che prima ha taciuto, chiusa in un intimo e pudico dolore, ora comincia a reagire. Volano urla e accuse: dov’è lo Stato? È la domanda che sale dalla rabbia dei dimenticati. Dov’è lo Stato? Lo chiediamo anche noi, impotenti spettatori di una tragedia annunciata. Non è solo la contabilità crescente dei cadaveri che affiorano con disperante lentezza dalle macerie dell’albergo di Rigopiano che deve riguardarci. Quello è il caso eclatante, che fa audience per i media. C’è da chiedere conto di un altro pezzo d’Italia appenninica di cui si sono perse le tracce. Stalle crollate con migliaia di capi di bestiame persi. Un’economia locale andata in pezzi. Non è il Medioevo: è il 2017. Com’è possibile? Abbiamo posto domande e nessuno si è degnato di rispondere.

Soltanto ieri l’ex capo della Protezione civile, Franco Barberi, ha provato a dare una spiegazione verosimile del perché la macchina della gestione delle emergenze affidata alla Protezione civile non sia stata all’altezza della sua storia d’efficienza e di tempestività. Barberi, convocato nel salotto della trasmissione televisiva di Rai 3, “Agorà”, la mette giù così: “Durante l’era Bertolaso il sistema di Protezione civile aveva acquisito poteri esorbitanti sottraendoli ad altre branche della Pubblica amministrazione. Ciò era stato possibile perché il super-manager aveva alle spalle l’appoggio incondizionato del Governo Berlusconi. Caduto il referente politico, i vecchi poteri hanno brigato perché la Protezione civile venisse ridimensionata, per cui si è passati dal troppo al troppo poco degli ambiti di autonomia nella gestione dell’emergenza”.

Il dramma al quale stiamo assistendo in queste ore non sarebbe altro che il frutto avvelenato dell’ingessatura decisionale della struttura di Protezione civile. Insomma, una guerra di bande vissuta e consumata all’interno degli apparati burocratici. Che modo bizzarro di declinare lo spirito liberale dell’equilibrio tra i Poteri! Doveva immaginarlo Montesquieu che le sue idee, debitamente asservite ai maneggi dei boiardi di Stato, avrebbero aiutato gli apparati burocratici a contendersi il diritto di distribuire le porzioni della torta pubblica. Quando va bene si accordano, quando va male si combattono. Ma alla fine il conto lo pagano sempre e solo i cittadini. Oggi è toccato all’Abruzzo e alle Marche, domani saranno altre comunità a fare i conti con questo mostro biblico che strozza il Diritto e il buon senso con le sue inestricabili spire fatte di leggi e leggine, commi e contro-commi, regolamenti e appendici interpretative dei regolamenti. Così muore l’Italia, soffocata sotto il peso della neve e della foresta normativa più impenetrabile dell’Occidente libero. E la politica? La politica non c’è, ha abdicato al suo ruolo, ha smesso di rivendicare la propria egemonia. Si accontenta di presidiare la comunicazione e di garantirsi gli spazi degli annunci e della propaganda, il resto lo lascia all’insindacabile dominio della macchina amministrativa. D’altro canto, i governi tramontano, i ministri passano, mentre i direttori generali, i prefetti, i capi e i capetti degli uffici e delle “Authorities” restano.

Quella italiana è una democrazia moderna solo a parole. La sua sostanza rimane corporativa e feudale. Una cosa, ancorché buona e necessaria per la comunità, si fa solo se rispetta determinati equilibri d’interessi particolari. Se invece l’infrange, o non li garantisce adeguatamente, non si fa. Se poi le cose vanno male, come sta accadendo in Abruzzo, comincia lo scaricabarile. Di chi la colpa? Mistero della fede. Quando ci sono tanti responsabili non si trova mai un colpevole. E si va avanti di questo passo, fino alla prossima tragedia. Pardon, nevicata.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:56