Bettino Craxi: non scordare quella voce

giovedì 19 gennaio 2017


Non dimenticare riguarda quella strana qualità che ci accompagna prima durante e dopo la vita: la memoria. Non sembri un gioco di parole, semmai un tentativo di rimettere le cose, se non a posto, almeno nel luogo dove chiunque in buona fede possa rimettersi in pace con la storia. Ora, la storia di Bettino Craxi, morto in esilio ad Hammamet diciassette anni fa, ha subito e subisce quegli alti e bassi (più numerosi i secondi) che, a guardare bene, toccano a non pochi protagonisti politici, e non solo. Ma per Bettino c’è stato, ed ancora permane, un surplus di smemoratezza, un quid in più di delegittimante archiviazione fra cui la causa principale possiamo tranquillamente attribuirla a una sorta di vergogna silente ma operante come uno speciale morbo: la coda di paglia.

La memoria di Craxi, buttata molto spesso fuori dalla finestra della nostra storia (anche un certo Matteo Renzi è stato uno dei buttafuori), rientra quasi sempre dalla porta non solo o non tanto perché è una personalità che ha segnato un pezzo della nostra vicenda politica, ma soprattutto perché la sua figura continua a porci domande, a parlarci, se non addirittura a intervenire nella stessa politica del “day by day”, qualsiasi sia la Repubblica. Ed è forse questa la ragione della smemoratezza di molti, come accade quando la sudditanza alla rimozione psicopolitica, produce il sorvolo, il passare ad altro, un vero e proprio non possumus che, tuttavia, ottiene quasi sempre l’effetto contrario con la riapparizione del rimosso.

Capita tutto ciò soprattutto perché la politica craxiana - cui tanti riconoscono azioni innovative, geniali intuizioni, opportune premonizioni e giusti avvertimenti - aveva sposato e proposto, nel solco di un riformismo a tutto tondo non poco estraneo alla tradizione dualistica degli opposti estremismi, la modernità, il nuovo che avanzava contro il vecchio che resisteva, la necessità di riformare istituzioni consunte, l’obbligo di far rispettare nel mondo la sovranità del Paese, tutto ciò ed altro ancora, ma con una dote in più: il decisionismo. Che non è, in politica, una manifestazione di forza con un tocco di astuzia ma, al contrario, è la consapevolezza di guidare un Paese che ha un ruolo fondamentale dentro e fuori dell’Europa, che sa e deve giocare le sue carte in momenti delicati e pericolosi che può, anzi deve, mostrare il senso e il significato di questo ruolo, di questa “mission” nella più piena e responsabile autonomia.

Non altrimenti si spiegano le pagine craxiane scritte nel caso Sigonella per le quali si è speso da altri tanto inchiostro per insinuare persino una sorta di voglia matta di potere, una specie di smania di sfidare i potenti (Ronald Reagan, gli Usa). Ma c’è una precisa e inequivocabile risposta a questo con la domanda di Enzo Biagi a Craxi: “Cos’è il potere?”, e lui: “È la libertà di decidere”; dove la parola libertà è pronunciata non a caso. Ed infatti la troviamo in una sorte di epigrafe sulla sua tomba ad Hammamet: “La mia libertà equivale alla mia vita”. In un Paese dove la stessa parola riformismo è stata per anni considerata un’eresia e dove, in pieni anni Ottanta, dominava a sinistra l’egemonismo politico e culturale di un berlinguerismo ancora elogiativo del marxismo leninismo sovietico (e suoi intensi fringe benefits ai partiti fratelli), il decidere, la governabilità, il riformismo istituzionale, i meriti e i bisogni, il referendum sulla scala mobile, ecc. erano punti irrinunciabili di un socialismo liberale, peraltro minoritario nel Paese, ma dall’impatto inestimabile e dalla voce così potente da giungere fino ad oggi, fino a questi anni 2000, fino a queste ore.

Ha ragione la figlia Stefania a salutare con soddisfazione la visita del ministro degli Esteri, Angelino Alfano, al cimitero di Hammamet in un contesto nel quale “pare sia arrivato finalmente il tempo di fare i conti con la figura di mio padre, un tempo nel quale c’è bisogno di una riflessione serena, senza viltà e ipocrisie”. Una di queste ipocrisie, forse la più diffusa, è la questione del debito pubblico imputato a Craxi che, come si sa, lasciò il governo nel 1987. Ebbene, i dati di Bankitalia parlano chiaro: nel 1987 il rapporto Dn/Pn era di 89,11. Nel 2016 questo rapporto ha largamente superato il 130. Quasi un raddoppio del debito pubblico per una seconda (o terza) Repubblica nata sulle macerie giustizialiste - anche in nome e per conto del “non poteva non sapere” - contro la prima ritenuta responsabile di tanti disastri. Che sono, al contrario, imputabili a questa Repubblica fra cui lo sviluppo esponenziale della corruzione politica, l’instabilità, la delegittimazione reciproca, la fine dei partiti e della politica, la crisi profonda dell’Europa.

A proposito degli “europeisti purosangue” le parole di Bettino qualche tempo prima della sua morte, sono di un’attualità e di una premonizione stupefacenti: “Per loro entrare in Europa è diventato un mito, una favola incantata, un miraggio... Nessun dibattito serio, nessuna valutazione realistica di come stanno le cose e, soprattutto, di come staranno...”. Insisteva, Craxi, sulle “camicie di forza” per giungere all’unità monetaria “mentre ciò che si profila ormai è un’Europa in preda alla disoccupazione e alla conflittualità sociale a causa di un progetto che ha tralignato dai suoi presupposti, senza corrispondenza alla concreta realtà di economia e di equilibri sociali non facilmente calpestabili. I parametri di Maastricht non si compongono di regole divine, non stanno scritti nella Bibbia, non sono i dieci comandamenti. Tutto è cambiato e tutto cambia, la realtà si modifica, la situazione odierna è diversa da quella sperata”. Nemo propheta in patria. Ma neppure in esilio.


di Paolo Pillitteri