Populismo: batterlo si può e si deve

Chi ha vinto il 4 dicembre? E chi ha perso è solo Matteo Renzi? E quel “No” massiccio al referendum era così diretto contro le riforme costituzionali? Contro i cambi alle Regioni e cosette del genere? O è stata un’altra storia quella bocciatura? Un imprevedibile sbocco del disagio sociale? Un sintomo inequivocabile dello stato di crisi del ceto medio? O una vittoria del populismo, magari di quel Beppe Grillo che una volta sta a destra e l’altra volta a sinistra? Già, il populismo. La più semplice definizione del populismo, nato nell’Ottocento in Russia sull’onda di un generico socialismo, la troviamo nelle memorie di Anna Kuliscioff che fu, non a caso, fra le prime populiste, e coinvolta persino in tentativi di attentati ai potenti, e subito pentita, anche perché innocente e, dopo un bagno intellettuale fuori dalla sua Crimea, divenuta profeta del riformismo socialista come alternativa sia ai reazionari, sia ai conservatori, ma, soprattutto, al populismo in sé e per sé.

Per la compagna di Filippo Turati populismo era e doveva essere nella sua essenza un “andare verso il popolo”, nulla di più e nulla di meno di questo slogan, peraltro semplificatorio ma, soprattutto, riempito da ben altri ammennicoli ideologici rivoluzionari culminati nell’assassinio dello Zar Alessandro II. Col tempo il populismo, sempre sorretto dalla demagogia e sposato al giustizialismo inteso come fare giustizia, anche sommaria, da parte del popolo innocente contro il potere corrotto e corruttore, ha cambiato non soltanto il “significante” ma la collocazione, spostandosi dall’estrema sinistra all’estrema destra, dall’empito rivoluzionario per sollevare la condizione del popolo oppresso all’uguale e contraria spinta delle masse in direzione opposta, vedi il caso emblematico di Benito Mussolini la cui matrice socialista massimalista connota comunque il suo populismo sia di lotta che di governo.

E oggi? Oggi c’è la democrazia diretta alla Grillo coi suoi pentastellati ai quali, peraltro, l’appartenenza al movimento viene esaltata, dentro e fuori, intesa come adesione all’unica, vera, autentica e rivoluzionaria democrazia diretta, appunto. La cui nascita, il “V-Day” nel giugno del 2007, è battezzata dall’ineffabile grido di battaglia (“vaffanculo!”) contro l’immonda casta, cioè tutti gli altri partiti, che è stato ed è, a un tempo, lo slogan e il programma del Movimento Cinque Stelle. Vincere urlando un “no” a tutto e a tutti gli altri non è difficile quando la politica è in declino e il malessere è diffuso nella società. Ti ingrassi di voti, ma non puoi che stare all’opposizione. Peraltro, il contrattualismo di cui sopra rifiuta alla radice lo stesso concetto di democrazia diretta, tanto più che il potere di Grillo vede e prevede e punisce, e non alla cieca, se è vero come è vero che almeno un terzo dei senatori pentastellati è stato espulso: un classico nella battaglia delle non-idee, a parte quella del capo che intende il partito ben più che di sua proprietà, ma una sorta di falange armata per combattere gli avversari e gli infedeli, sempre in nome, beninteso, dell’onestà e, mi raccomando, della democrazia diretta. Diretta da lui, si capisce.

E la stessa Virginia Raggi, per dire, è dentro questa specie di capsula, unica al mondo nelle democrazie che conosciamo ma che non può durare in eterno sia per le negazioni di principio che contiene, destinate prima o poi ad esplodere, sia per l’accesso al potere dei penstellati, con un sindaco come emblema, quello di Roma. E non perché il potere corrompa, ma perché governare è cosa altra, difficile, complessa, scomoda, radicalmente diversa dalla condizione - comoda - dell’opposizione. Intanto, però, il Grillo s’è portato a casa, più degli altri e immeritatamente, la vittoria del “No”, che resta comunque il sintomo più chiaro delle difficoltà del ceto medio italiano, la parte più ampia e sempre decisiva della società italiana. Guai a chi lo perde! Questo è il vero punto, la sfida, l’hic Rhodus hic salta che Renzi, ma non solo, ha colpevolmente sottovalutato, magari vellicando a suo modo il populismo e, quel che è peggio, non intervenendo con decisione a rimediare con riforme vere, a produrre crescita e sviluppo, a ridurre una tassazione che prevede oltre cento passaggi di imposte al cittadino tipo, simbolo autentico del ceto medio al quale interessano molto meno le leggi elettorali e molto di più i posti di lavoro che mancano, le vacanze non fruibili perché non ci sono soldi, la disoccupazione dei figli, gli affitti cari, ecc..

La battaglia della politica democratica, e non soltanto di Paolo Gentiloni, è questa e solo questa. La via maestra è sempre quella, se si vuole governare col consenso. È la vera sfida. Che si può e si deve vincere. Perché, vincendola, il populismo chiude i battenti. E Grillo, con Casaleggio, invece pure.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:56