Scuola senza educazione

Susanna Tamaro ha scritto un articolo memorabile sul Corriere della Sera di lunedì scorso: un articolo che, se avessimo un ministro dell’Istruzione, dovrebbe inviarlo a tutti gl’insegnanti d’ogni ordine e grado, come si diceva una volta.

Educare, non solo istruire, contro il buonismo di Stato”, questo il titolo e l’argomento. La scrittrice vi compie una radiografia della scuola italiana, dalle elementari alle superiori. Se ne resta impressionati, specialmente dal legame tra cause ed effetti. Tra le prime, riassumo e qualifico io, troviamo il lassismo, il modernismo, la vacuità. I virgulti non possono, non devono essere sottoposti a sforzi mentali eccessivi. Infatti non recitano più a memoria brani o poesie; non compilano più i riassunti; non imparano le strutture basilari del pensiero e dell’apprendimento (tabellina pitagorica, vocabolario essenziale, grammatica e regole mnemoniche per ricordarla, principi scientifici elementari).

La Tamaro sottolinea le lacune più eclatanti: la sconoscenza della geografia italiana, dei fondatori dello Stato nazionale, della soluzione di problemi da quinta elementare, e aggiunge: “Che questa non sia finzione ma triste realtà ce lo confermano le statistiche internazionali che ci hanno visto precipitare nelle graduatorie Ocse di due punti in un solo anno, relegandoci al 34° posto su 70 Paesi”.

Il lassismo che ha imperversato e imperversa nella scuola media, per effetto del quale i maestri e i professori si guardano bene dal pretendere dagli studenti qualcosa che esuli anche soltanto un po’ dal piattume dell’egualitarismo didattico, è stato impercettibilmente eretto a metodo d’insegnamento, una sorta di montessorismo dell’ignoranza. Con il lassismo, ha fatto e fa danni il modernismo, che non ha niente a che vedere (ma forse sì, almeno un po’) con la corrente religiosa che pretendeva di mettere la Chiesa al passo con i nuovi tempi. L’istruzione modernista ha preso il nome di “scuola delle tre I”, cioè informatica, inglese, impresa. L’informatica i giovani, anche i bambini, la apprendono da soli e per imitazione nella loro cerchia sociale. Sono davvero pochi quelli per i quali risulta essenziale ed imprescindibile l’insegnamento scolastico, in classe davanti a un vecchio pc, dei rudimenti dell’informatica. In troppi casi sono gli studenti a poter insegnare qualcosa in materia ad attempati professori. Quanto all’inglese, sebbene impartito per un lustro e più, la gran massa non lo parla e lo capisce meno: “I do not speak English and I understand even less”, come ha dimostrato al mondo intero un nostro presidente del Consiglio che ne sfoggiava l’ignoranza con festosa improntitudine.

Circa l’impresa, chi pensa che l’intraprendenza, specialmente economica, possa essere insegnata, è un povero allocco al pari di chi pretenda di formare un poeta nelle aule scolastiche. Ed infine la vacuità. La scuola, essendo intrisa di buonismo ed egualitarismo, abitua gli studenti a sentirsi appagati pur in mancanza o in scarsezza di validi contenuti morali e intellettuali, e per contro li disabitua tanto alla responsabilità individuale quanto alle durezze della vita, sia spirituale che materiale. Fa sembrare loro facile e lieve il presente e il futuro, omogeneizzando la loro esistenza.

“Vietato vietare”, nota esattamente la Tamaro, “con la rapidità osmotica dei principi peggiori, ormai è penetrato ovunque”. Istruire, che consiste nel metter dentro, ha un significato opposto ad educare, che significa invece trarre fuori. Estrarre, formandola, la personalità dell’alunno non può esser fatto senza divieti, senza la distinzione tra il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, i meriti ed i demeriti. L’istruzione è semplice e facile: uno parla e l’altro ascolta. L’educazione invece implica il coinvolgimento reciproco, complesso e faticoso, per plasmare la persona. Perciò l’Italia ha l’istruzione che ha e i cittadini che ha.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 20:04