Le ragioni di Mediaset e la questione Rai

Non è un trucco e neppure un ripiego e nemmeno quello che si chiama un menar il can per l’aia, dove per l’aia è il mercato tout court e il cane è la tivù. Che in Italia, politicamente, si riassume(va) nel duopolio Rai-Mediaset.

Ora, siccome la tesi di Silvio Berlusconi e di Fedele Confalonieri verte essenzialmente sulla difesa dell’italianità di Mediaset, suona da noi strano, troppo strano, il diktat della sovranità del mercato rispetto ad un’azienda che, proprio grazie a Berlusconi, ha rotto non soltanto il monopolio Rai ma ha aperto orizzonti infiniti all’intero settore proprio perché la rottura di un monopolio dischiude porte, finestre e spazi all’iniziativa privata. Cose che sappiamo, da tempo. Così come sappiamo non solo politicamente ma, soprattutto economicamente, che la difesa dell’italianità di un’azienda storicamente importante come Mediaset è il meno che, non soltanto il suo inventore e proprietario ma il buon senso deve, o dovrebbe, difendere.

Certo, la globalizzazione predica regole valide. Ma per tutti? Non sembra, basta guardare oltre le Alpi dove il sistema politico francese ascolta bensì le raccomandazioni mercatistiche ma poi fa l’interesse della nazione, scambiato dai criticoni per un déjà-vu patriottico se non patriottardo. C’è, peraltro, una legge - quella chiamata “Gasparri” - che contiene anche indicazioni rispetto al mercato televisivo, e siccome è una buona legge non si capisce perché non la si debba seguire, anche e soprattutto in funzione non certo di una difesa perinde ac cadaver del Cavaliere (che sa difendersi da solo nei palazzi del potere italiano, Nazareno docet) ma guardando al patrimonio di uomini, programmi, idee, reti, che Mediaset ha saputo far crescere e che si vorrebbe ora internazionalizzare ovvero “deberlusconizzare” sulla spinta di una ventata di follia mercantilistica, con l’insinuazione del leggendario conflitto d’interessi su cui è nata e cresciuta una nidiata di uccellacci del malaugurio, intellettuali e politici con link finanziario. Magari in risposta alla provocazione berlusconiana di privatizzare la Rai, che resta un suo pallino non disinteressato ma è forse lui stesso il primo a sapere che quella strada è impercorribile, come l’altra di toglierle il canone, come vedremo poco sotto.

Ora, il Cavaliere non si limita soltanto a dire giù le mani dalla “mia” Mediaset, come insinuano quegli uccellacci calcando su quel “mia”, ma, al contrario, ne rivendica il ruolo e la funzione nazionale e internazionale, pur sapendo che proprio sulla parte non italiana di questo ruolo Mediaset ha oggettivi ritardi e, probabilmente, un’alleanza col “nemico” Vincent Bolloré potrebbe fare del bene ad entrambi. Ma il problema non è (ancora) questo; e ha perfettamente ragione, sempre Silvio, a parlare di “estorsione” in riferimento ai disegni d’Oltralpe, con tanto di ricorso giudiziario. Vedremo. Ma intanto della Rai che si dice? Che si fa? Come va? Sempre di Maurizio Gasparri abbiamo seguito un interessante intervento su “Il Foglio” dell’altro giorno. L’autore dell’omonima legge non le manda a dire a Matteo Renzi a proposito della Rai. Fermo restando che il servizio pubblico radiotelevisivo pubblico è e pubblico deve restare, compreso il canone che, in un certo senso, lo giustifica, anche se il collegato problema “pubblicitario” resta aperto.

La polemica gasparriana centra comunque una questione che il nostro Arturo Diaconale vive in prima persona insieme a Carlo Freccero e Giancarlo Mazzuca nominati dal Parlamento. Il Parlamento, appunto. L’astuto Renzi, in un mix di furore rottamatorio e di nuovismo manageriale, ha fatto della gestione della “sua” Rai un capolavoro di ipocrisia, naturalmente pro domo sua. Niente di straordinario, in politica. Lo straordinario è invece il risultato ottenuto dall’allora Premier: tutti i poteri al direttore generale, il CdA (nominato dal Parlamento) privo di qualsiasi potere effettivo ma soltanto consultivo. Il bello è che la Rai dovrebbe essere addirittura edita dal Parlamento, lo stesso che ne è stato esautorato in nome e per conto della mitica guerra alla lottizzazione partitica, risolta d’emblée trasferendo tutti i poteri al Governo e svuotando letteralmente le funzioni parlamentari, unica e vera garanzia di pluralismo. Ma basta con i pretesti della partitizzazione Rai, un gioco alle tre tavolette per impossessarsene governativamente sbandierandone le istanze mercatistiche, privatistiche e meritocratiche.

“Ma mi faccia il piacere!” (Totò). Sullo sfondo del colpaccio renziano non potevano mancare gli spunti demagogici sui tetti alle retribuzioni, ben sapendo che un personaggio di grande successo popolare va dove lo porta il mercato: lui. E, last but not least, è essenziale che la Rai debba competere a tutti i livelli, in ispecie internazionali, ma con risorse garantite. Le garanzie, dunque. Per prime, quelle che danno un senso e una ragion d’essere al servizio pubblico radiotelevisivo, sono quelle da dare quotidianamente nella rappresentazione delle opinioni del Paese: tutte. Perciò la domanda è: all’errore, chiamiamolo così, renziano, come si rimedia? Con la politica, questa sconosciuta. Batta un colpo, se c’è (ancora).

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:03