Il Colle e la speranza infranta delle urne

Esaurito l’effetto-choc delle dimissioni del Premier Matteo Renzi dopo la batosta referendaria, torna in auge la politica paludosa delle manovre di palazzo.

Benché le urne della scorsa domenica, certificando il fallimento renziano, abbiano indicato la strada delle elezioni anticipate, l’aria che tira è quella mortifera del: “Resistere, Resistere!” incollati alle poltrone. Avremmo dovuto capire da subito che non si potevano fare i conti senza l’oste e, soprattutto, che l’oste non fosse più il “rottamatore” di Rignano sull’Arno ma l’inquilino del Colle più alto. La palla, infatti, è passata al Presidente della Repubblica che la giocherà alla maniera dei vecchi democristiani, cioè evitando scossoni incontrollabili al quadro politico attuale. A Sergio Mattarella non sfugge che l’establishment, che sente sul collo il fiato di un montante populismo, non desideri un passaggio per le urne in tempi brevi.

Per il Quirinale, quindi, sarebbe preferibile una soluzione della crisi che consenta la regolare prosecuzione della legislatura fino alla scadenza naturale fissata agli inizi del 2018. È tuttavia improbabile che ciò avvenga posto che il Partito Democratico, da azionista di maggioranza del nuovo assetto governativo, dovrebbe farsi carico di affrontare un calvario lungo un anno con la certezza di soccombere sotto il fuoco delle opposizioni che avrebbero vita facile nello sparargli addosso quotidianamente. Mattarella, però, è aiutato da due fattori che potrebbero rivelarsi decisivi nella costruzione di un percorso almeno di medio respiro: la necessità di approvare una legge elettorale coerente per entrambe le Camere e la malcelata aspirazione dei cosiddetti “peones” che siedono tra i banchi parlamentari di superare la data del 17 settembre 2017, giorno in cui scatta per deputati e senatori della legislatura corrente il diritto a ricevere il vitalizio riservato agli “ex”.

Fatti due conti, la finestra temporale per andare alle urne si restringerebbe a un periodo compreso tra la fine della primavera e l’inizio dell’autunno del prossimo anno. Ciò che Renzi non vuole. Ma non sta a lui decidere. Il capo dello Stato al più gli concederà la possibilità di indicare un nome per la successione che non faccia velo ai suoi propositi di riscatto. Si tratta di un’offerta di quelle che non si possono rifiutare perché le conseguenze di un diniego sarebbero rovinose. Se Renzi dicesse di no a Mattarella scatterebbe il “piano B”, che consiste nello sfilargli il partito dalle mani. Per l’evenienza sono già mobilitate le truppe cammellate della corrente interna al Pd che fa capo a Dario Franceschini. Si tratta della componente maggioritaria che fa il bello e il cattivo tempo dentro il partito. Se Renzi perdesse il sostegno dei neo-dorotei del corpaccione franceschiniano dovrebbe dire addio ai sogni di gloria. È quindi prevedibile che il giovanotto si piegherà al cortese invito rivoltogli dal Quirinale di fare un nome potabile da mettere alla guida di un Esecutivo che provveda a fare la legge elettorale ed a rappresentare il Paese agli appuntamenti internazionali programmati per la prima metà del prossimo anno. Il nome dell’ex ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, potrebbe fare al caso: troppo esperto per commettere gaffes da principiante, troppo debole per diventare in prospettiva l’anti-Renzi. Esauriti i compiti assegnati entro il prossimo mese di maggio, il mite conte Gentiloni toglierebbe il disturbo per tornare alle sue amate racchette da tennis, a patto che i “peones” non lo costringano a tirarla per le lunghe nell’intento di scavallare il mitico “17 settembre”. Se così dovesse andare rassegniamoci a vivere un anno di campagna elettorale durante il quale chiacchiere e promesse da marinaio terranno banco al posto delle soluzioni concrete ai problemi della gente comune. Cambiano i musicanti, ma la musica resta la stessa. Allegria!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:58