Dopo Renzi, sotto la superficie

Dopo la sconfitta di Matteo Renzi sconcertano i goffi tentativi dei soliti noti dell’intellighenzia politically correct di imbastire spiegazioni convincenti.

Il rischio è che ci si arrampichi sugli specchi nell’illusione che con le bugie si possa anche tirare a campare, mentre ammettere la verità possa fare molto male. Meglio buttarla in psicologia da bar dello sport. Allora largo alle analisi da salotto televisivo domenicale. “Renzi ha perso perché è diventato antipatico alla maggioranza degli italiani”. La prova? Lo ha detto Oscar Farinetti alla Leopolda. Il problema sarebbe l’invidia. Bello e vincente Renzi, bella e prorompente la ministra Maria Elena Boschi, come non covare rancore verso due privilegiati che, tramite un’orrenda riforma costituzionale, ambivano a regnare per molti lustri sui comuni mortali? E poi: Renzi si è fatto l’aereo personale, porta la famiglia a sciare con l’elicottero di Stato, abbraccia e bacia la splendida Michelle Obama come fosse la sua nuova fiamma. Come non detestarlo per questo e non desiderare di fargliela pagare? Altro capo d’accusa: l’arroganza con la quale ha approcciato amici e nemici già dai tempi del “Fassina, chi?”, fino ai più recenti sfottò indirizzati a quelli della minoranza interna del suo partito. Arroganza miscelata a spregiudicatezza a ritmo di tweet: “Enrico-stai-sereno” e “D’Alema? il passato”, come dimenticare quelle sentenze capitali sibilate in Rete?

Insomma, un tipo very cool con il vizio di danzare con scarsa leggiadria sugli zebedei della gente qualunque. È ciò che si legge in queste ore sugli autorevoli “giornaloni”. Ma ancora una volta i media dimostrano di non aver capito un beneamato nulla. Sebbene sia vero che, nel voto di domenica scorsa, abbia pesato anche un giudizio di valore sul “personaggio” Renzi, non è pensabile che ci si accontenti di restare alla superficie delle cose. L’onda che ha travolto il “Governo del rottamatore” ha origini profonde non rilevabili con gli strumenti tipici del gossip. Le ragioni del sisma referendario attengono a un processo rivoluzionario di natura morale che sta attraversando la civiltà occidentale nel suo complesso. Ciò che è in campo è la crisi del consumismo e del connesso paradigma di società liquida. Emergono per reazione spinte alla riappropriazione, sebbene a stadi irrazionali e prepolitici, di valori e di archetipi fondativi dello spirito comunitario, che sopravanzano perfino gli effetti della perdurante congiuntura economica negativa. Questa crisi interroga la società sul senso odierno di categorie concettuali quali: benessere, progresso, felicità, educazione, sviluppo economico, sostenibilità ambientale, giustizia sociale. Quando Renzi annunciava a reti unificate: “Gli italiani stanno meglio” era solo menzogna? O non era piuttosto che i codici interpretativi del reale maneggiati dal giovanotto fossero tarati su frequenze diverse rispetto a quelle dell’italiano medio? Affermare che la creazione di un posto di lavoro precario e sottopagato sia una risposta adeguata alla domanda di futuro di un giovane è stato solo un atto di colpevole arroganza o la dimostrazione di una distorta capacità di lettura dei bisogni reali delle persone comuni? Questi dubbi inducono a ritenere che la scorsa domenica non sia stato semplicemente rispedito a casa un impostore ma sia stato protestato, per usare un gergo da compagnia teatrale, il contratto sociale che lega i membri di una comunità alle élite incaricate di guidarla. Non è questione di poco conto.

La crisi aperta da venti milioni di italiani con il “No” alla riforma costituzionale richiede rimedi straordinari che non possono essere appagati da soluzioni il cui solo scopo sia di garantire il galleggiamento dell’establishment. Intendiamoci: Matteo Renzi non è Luigi XVI e Maria Elena Boschi non è Maria Antonietta che prescrive brioches al popolo affamato. Tuttavia, chi può dire con assoluta certezza cosa faccia scattare la scintilla di una rivolta? La classe dirigente che si prepara a scrivere una nuova pagina della politica italiana nel dopo-Renzi dovrebbe preventivamente indagare a fondo le ragioni del malessere affiorato dalle urne referendarie e non limitarsi a sfruttare la fortunata circostanza della rimozione dell’avversario con insospettata vigoria dal sovrano che in democrazia, piaccia o no, resta pur sempre il popolo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:59