Lupi, Gentiloni,  e le porte girevoli

Non si sa con certezza matematica se il sonno della ragione generi mostri. Di certo sappiamo, però, che il sonno della politica genera magistrati. Nel senso più completo ed ampio della metafora, al punto che i secondi sono subentrati alla prima, sia pur in concorso decisivo con i mass media. Difatti, da oltre venti-venticinque anni, il circo mediatico giudiziario condiziona la vita del Paese, oltre che la politica. Fin che lo diciamo noi questa è una verità di seconda categoria, spesso contestata. Quando invece lo scrive “la Repubblica”, assurge al verum ipsum factum, diventa - a modo suo - verità religiosa, rivelata, mistica e sacrosanta. Il frutto più succoso del famigerato processo resta pur sempre una dilagante antipolitica derivante, per l’appunto, dal micidiale cortocircuito tra mezzi d’informazione e indagini giudiziarie, sullo sfondo di certe assoluzioni simboliche, ancorché tardive e comunque di scarsissima rilevanza mediatica, a sua volta originata dal clangore ben orchestrato delle accuse.

“Da quasi un quarto di secolo - scriveva qualche tempo fa “la Repubblica”, nomen omen - c’è un cortocircuito che condiziona la vita del Paese. Protagonisti ne sono la politica, la magistratura e i media, tutti in qualche modo responsabili di avere malinteso il proprio ruolo, influenzandosi l’un l’altro in un meccanismo dagli effetti perversi... In molte occasioni anche noi giornalisti dobbiamo riconoscere di avere rinunciato ad una funzione critica nei riguardi delle iniziative dei pubblici ministeri, prestandoci ad amplificare l’eco di procedimenti dalle basi dubbie, senza dedicarci all’approfondimento dei fatti e della rilevanza penale. E soprattutto senza svolgere la nostra attività di controllo nei confronti del potere, di tutti i poteri”. Alla buonóra, verrebbe voglia di dire, sol che si pensi al ruolo di punta di diamante del giustizialismo, non tanto o non soltanto del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari quanto dell’intero (o quasi) sistema di informazione-comunicazione con l’aggiunta di spezzoni importanti di partiti - una volta era inarrivabile quello dei postcomunisti - con lo strutturarsi, invero e surreale, di uno scontro fra partiti politici in nome e per conto dell’antipolitica, dal risultato favorevole esclusivamente per questa. All’antipolitica, ancorché nella sua misura più contenuta, ha fatto o fa riferimento, a volte, lo stesso Premier del quale si ricordano gli appelli alla riduzione di lasciti, stipendi, gettoni, spese e così via, di parlamentari, consiglieri regionali, comunali e politici in genere, in una gara - o meglio scontro - con quelli del M5S, peraltro specialisti imbattibili in simili conti in tasche altrui, senza rendersi conto di portare l’acqua al mulino grillino salvo, naturalmente, precisazioni, appunti e retromarce che confermano, purtroppo, quanta strada abbia percorso il gioco perverso dell’antipolitica. Una strada che è arrivata in alto, molto in alto, anche lassù dove basta un sussurro, un cenno, un sospetto, un clima, un’ombra di un qualsiasi sapore giudiziario per chiedere e ottenere dimissioni e sostituzioni.

La strada è giunta anche oltre il portone di Palazzo Chigi, almeno nel caso di Maurizio Lupi, ricordate? A proposito della “bomba delle grandi opere” - questo il termine più usato o abusato dai media - per la quale venne messo nel mirino uno dei nostri più noti e capaci manager, Ercole Incalza, avvisato, indagato, arrestato e, “ça va sans dire”, devastato dal tritatutto mediatico a cui non rimase immune il figlio di Lupi per un orologio regalatogli, il cui costo si è spesso modificato all’ingiù nel corso dell’istruttoria. Come poteva un Premier autopromosso nella rottamazione del “vecchio ciarpame della corruttela diffusa” aver accanto a sé un ministro di tal fatta, benché non avvisato, indagato, imputato ma, ahimè, amico di Incalza e col figlio con tanto di Rolex avuto in regalo? Non poteva. Perciò dimissioni e sostituzione di Lupi.

Passano i mesi, gli anni e le inchieste vanno avanti, compresa quella sulle grandi opere, la cosiddetta bomba. E, proprio in questi giorni, il manager finito nel tritacarne del circo mediatico giudiziario viene completamente prosciolto dallo spezzone “grandi opere”. Purtroppo non gli sarà restituito il tempo, il dolore e i dispiaceri, comunque chi vivrà vedrà, come si dice. Ma a Maurizio Lupi qualcosina si potrebbe restituire, magari lo stesso posto di ministro che occupava ai tempi della leggendaria bomba. Voi dite che sarebbe una forzatura? Ma quando mai. È semmai una forzatura bella e buona lasciare un altro ministro - tanto per non far nomi - quello degli Esteri, Paolo Gentiloni, dopo la figuraccia mondiale commessa con quell’incredibile astensione filo musulmana a proposito del Muro del Pianto ebraico. Esce uno, per un grave errore politico commesso (e censurato persino dal Premier in persona) ed entra un altro, un innocente, allontanato sempre dallo stesso Premier. Una riparazione? Un “beau geste”? Nessuna delle due cose, temiamo. Non si conoscono porte girevoli a Palazzo Chigi.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:01