Vuoto della politica e deriva linguistica

Poco o nulla ha a che fare con quello che stiamo scrivendo la disfida sulla vignetta a proposito del corpo (in verità di tutto rispetto) della ministra Maria Elena Boschi o sulla bambolina imbambolata di salviniana memoria o delle fantastiche e simpaticissime “cicciottelle” indirettamente causa di un incredibile licenziamento.

Roba da riderci sopra, in un Paese normale, altro che paginate di lezioni etiche. Ma andiamo. Diciamo comunque che questi esempi servono a illuminare una faccenda più ampia: il discorso pubblico & politico, come si è ridotto, cosa è successo, come andrà a finire. Si capisce che è una questione di zeitgeist. Si capisce, cioè, che lo spirito del tempo non è (e non può essere) quello dell’offerta dai politici di allora di un’arte retorica e ideologica di livello. Seria e approfondita, per dire. Si capisce, eccome, che la rissa e l’insulto ad personam prevalgano su forma e contenuto del discorso pubblico, eccezioni a parte, ovviamente. Chiedersi ciò che Heidegger e prima di lui Hegel ponevano con il termine “warum”, sarebbe come svuotare il mare - o una piscina olimpionica che va di moda - con un cucchiaio.

La deriva del linguaggio, e non soltanto politico, beninteso, è da non pochi osservatori individuata nel web, nei social network, che si fregiano detentori sia della semplificazione estrema sia della libertà massima di espressione anche per via dell’anonimato, ma soprattutto per l’immane, sovrumana possibilità di sfogarsi con questo o quel personaggio pubblico. Qualcuno ne ha argutamente celiato sostenendo che “il moto perpetuo dei social network dà la sensazione di essere circondati da cretini che si lamentano di essere circondati da cretini”. Una gabbia dorata, un labirinto senza uscita, dimenticando che, a volte, l’uscita c’è ma col Minotauro in attesa di distruggerti. Minotauro inteso come metafora essenzialmente mediatica, nel senso che dovrebbero assumersene il ruolo i media, quelli seri, la cui libertà, peraltro, non è sovrumana come l’altra ma è pur sempre una funzione da usare contro chi ne abusa, o, per lo meno, indicarlo allo sdegno del lettore. Capirai!

Lasciamo stare ora il web e atterriamo sulla terra di tutti i giorni, quella dei talk- show, degli special tv, delle televisioni in genere. Il panorama è anche qui desolante nella misura con la quale la tivù, spesso e volentieri, insegue la fascinazione dei network nella speranza dell’audience che si impenna, col risultato di far salire l’indice insultante che, tra l’altro, non sembra il più valido nell’azione del raccolto di consenso politico. Ma se questo è l’andazzo italico da anni e anni, una delle cause, il mitico “warum” va probabilmente cercato nello stato in cui è ridotta la politica. Per carità, nessuno slancio nostalgico al prima, non fosse altro perché serve a poco o a niente rimembrare i tempi antichi in un contesto radicalmente cambiato. Il punto vero e dolente, tuttavia, è che da anni e anni la Politica (intesa con la P maiuscola) non c’è più, latita, è sommessa e sottomessa. Ma lo è non per caso, non per la caduta di un astro dallo spazio, non per colpa del destino cinico e baro. Ferme restando le loro gravi responsabilità decennali, ventennali, cinquantennali e centenarie (ci fermiamo qui), la cancellazione dei partiti - salvo, forse, il Partito Democratico - ha segnato il punto di svolta sia della nostra storia che della società, comprendendo in questa i diversi settori, da quello mediatico a quello giudiziario a quello imprenditoriale e finanziario, e così via.

La morte dei partiti doveva essere sostituita da una loro rinascita approfittando non della supposta morte delle ideologie, ma della sconfitta di quelle dai peggiori risultati, comprendendo ovviamente fascismo e comunismo, ma non solo. Invece, anche l’ultimo neonato politico, il Movimento 5 Stelle, ce lo ricordiamo o no, ottenne una strepitosa affermazione con un “vaffa...” urlato in tutte le piazze, anche mediatiche d’Italia. E che dice ora Beppe Grillo del referendum costituzionale? Che non ci ha capito un’acca. Facciano i suoi adepti la loro parte. Quale? Come? Basandosi sulla fisiognomica: i ladri e i corrotti hanno tutti la stessa faccia, quella degli altri. Geniale, vero? Ma restiamo coi piedi per terra. Chiediamoci, ad esempio, perché è spesso così complicato discutere del supertema di oggi, la riforma costituzionale per l’appunto, ma altrettanto spesso sullo stesso tema si scivola nella rissa quotidiana con vistose divisioni interne (nel Pd, poi, c’è da rimanerne basiti) sullo sfondo sia della personalizzazione dello scontro sia dell’indifferenza, diffusissima, del corpo sociale. E dalle contumelie lanciate reciprocamente.

Dall’intreccio di questi due dati ne deriva la fortissima simbologia del sì e del no, indicativa non del contenuto referendario ma del gradimento o meno di un governo. Si dice: è sempre stato così. Non è vero, sia con i grandi referendum per dir così “radicali”, sia a cominciare ab imis - dall’inizio storico - da Alcide De Gasperi, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Luigi Einaudi, Giuseppe Saragat e altri leader politici alle prese con la scrittura della Costituzione (più bella del mondo, sic!). Ebbene, pochi ricordano che sia Togliatti che Nenni furono giustamente messi alla porta del governo da De Gasperi, ma approvarono la Costituzione. C’erano i leader ma c’erano, anche e soprattutto, i partiti. Oggi no, oggi la melassa parlamentare è fluida, mutevole, indefinibile, esattamente come chi la rappresenta per cui, se non mi piace l’Italicum la butto sulla Costituzione più bella, e viceversa. Lo chiamano linkage, ma solo perché fa chic. Anche se da un versante all’altro non si risparmiano epiteti estratti dal sacco sempre ricolmo degli “ismi” storici. Perché? Warum? Via i partiti, che resta? Resta che ovunque non si fa che un gran parlare delle élite e del loro sempre più ampio distacco dall’opinione pubblica, dalla massa dei cittadini. Non è difficile prevedere che il referendum renderà addirittura incolmabile quella distanza.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:02