Rai: si fa presto a dire trasparenza

Nel tanto parlare che si fa sulla Rai le considerazioni del nostro direttore appaiono le più limpide. Nel senso che inquadrano il discorso - e che discorso - nei termini secondo i quali le problematiche del servizio pubblico radiotelevisivo non, e ripeto non, dovrebbero essere affrontate. Termini, ovvero messaggi racchiusi nella falsa magia della demagogia e del populismo, i due gemelli più perniciosi così cari al Movimento 5 Stelle ma (e direi purtroppo) a Matteo Renzi e, va da sé, al renzismo.

Ora che i pentastellati presiedono la Commissione parlamentare di vigilanza applicano alla Rai vigilata i cascami della loro antipolitica, che altro non è che la loro azione nella Polis, dal Parlamento in giù. Un’azione riassumibile non tanto o non soltanto nel populismo più squallido frutto di uno pseudo-moralismo per elevarsi al ruolo di primi della classe, quanto, piuttosto, nell’assunzione apodittica del fatto, che fatto non è, di autopromuoversi al rango di rivoluzionari salvifici rispetto al punto zero in cui la partitocrazia corrotta ha precipitato il Paese. E in primis la Rai, che del Paese è l’immagine, come si dice.

Il Fico, ci scusi la semplificazione, è dunque sceso dall’albero della Commissione di Vigilanza Rai per dire la sua, e ci mancherebbe. Ha lasciato intendere l’ipotesi “privatizzazione di pezzi Rai” nel solco di un rinato (qua e là) spirito neoliberista. Ma ha subito tirato il freno a mano del politichese più abusato, compresi i leggendari pezzi da privatizzare invocando una legge contro le concentrazioni e un’altra contro il conflitto di interessi; un ambo legislativo che è già uscito, da tempo, sulla ruota Rai e stupisce che proprio l’esemplare tipico del “non partito, fermi tutti, siamo solo noi il vero antidoto alla corruzione sistemica” ricaschi sul déjà-vu dei mestieranti, dimenticando che queste leggi-norme ci sono già e sono di competenza dell’Antitrust. Ma se è comprensibile una dose di populismo da parte del Nuovo che avanza(va) col Grillo d’antan, lo è meno nel grillismo all’opera dentro le istituzioni, tipo la Vigilanza Rai, ma non solo.

Ma ciò che ha desolatamente attirato le critiche è stato l’altro populismo, l’altra demagogia, l’altra - diciamolo pure - antipolitica messa in atto da Renzi sulla Rai. Che l’azienda sia per un Premier l’oscuro e appetibile oggetto del desiderio, lo si sa da mo’. E che per gustarselo appieno Renzi abbia promosso una riformetta al grido paragrillesco “trasparenza innanzitutto e via i partiti dalla Rai!”, è un fatto. Solo che il punto di caduta renziano non era esattamente quel grido, ahimè risaputo, e comunque non poco faceto sulle sue labbra, quanto, invece, la collocazione del fedelissimo e managerissimo Antonio Campo Dall’Orto ai vertici Rai con funzioni da “faso tuto mi”, per dirla alla buona. Ché, alla cattiva, significa “tutto il potere al direttore generale e nessuno al CdA”, che nel vocabolario Zanichelli-Renzi- Devoto Oli significa: la Rai è del Premier.

Ora, non ci sarebbe stato nessun urlo scandaloso da emettere da parte nostra, se a un simile risultato si fosse pervenuti con un largo apporto di contributi, a cominciare da quelli di un CdA di tutto rispetto, e quindi della politica, cultura e mass media con novità autentiche; una programmazione geniale, un rilancio in grande stile della storica identità della Rai e della sua riconfermata dignità fra le grandi tivù mondiali. Invece, sullo sfondo della trovata non proprio geniale del canone allegato alla bolletta della luce, è andato in onda uno spettacolo a dir poco deprimente non soltanto per certe nomine apicali e alcuni richiami in servizio sui quali il buon Maurizio Gasparri (autore di una riforma vera) ha ironizzato per l’assenza delle gemelle Kessler, ma la bomba degli alti compensi.

Scandalo di qua e scandalo di là, com’era ovvio in un contesto politico in cui all’ottimismo trionfante del rottamatore sono subentrate le oggettive difficoltà del fare politica ogni santo giorno in un Paese dove avanza l’insicurezza e la paura, anche di diventare più poveri. La verità è che la Rai, come va sostenendo il lucido Istituto Bruno Leoni, è sempre stata considerata dai partiti come una sorta di Disneyland con quel che ne segue, alti compensi compresi. Cui la definizione “scandalosi” ha avuto una ricaduta mediatica e politica devastante, anche per un Premier marciante sotto la bandiera della trasparenza. In realtà, la tendenza allo scandalo è essenzialmente dentro la modalità del reclutamento dei dirigenti e la mancanza di un vivaio da coltivare dentro la Rai è certificata.

Semmai, questo non brillante capitolo di una Rai, la cui indispensabilità è riconosciuta per la narrazione polifonica della storia della nostra comunità-società- collettività, dovrebbe imporre un rilancio alla grande del servizio pubblico radiotelevisivo in una fase come l’attuale nella quale si dovrebbero allentare inevitabilmente le rigidità tipiche di altri contesti, come i divieti di incrocio fra stampa e televisione generalista, come l’imposizione di norme e logiche restrittive sull’informazione che avevano qualche motivazione vent’anni fa. Semmai l’attenzione andrebbe rivolta al comparto della pubblicità, tenendo fermo il principio che il servizio pubblico radiotelevisivo non dovrebbe mettersi in concorrenza sulla ricerca pubblicitaria con chi fa attività di mercato. Ma un fatto è certo: la Rai ha bisogno di riguadagnare il rispetto, l’attenzione e l’ammirazione dei contribuenti, si capisce. Il fatto è che la Rai è un osso duro. E ho detto tutto.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:00