Referendum: sì, no, ni, boh

A proposito di referendum, e non solo. Una premessa: l’Italia ha alle spalle un ventennio di promesse di riforme largamente disilluse (e siamo ottimisti…). Anche e soprattutto per questo la riforma costituzionale rappresenta un passaggio se non obbligato, certamente cruciale nello sforzo del Paese di ricollocarsi con ancora più dignità per dire così “governante la globalità dei problemi” nel contesto internazionale. Finita la premessa, cominciano, se non i guai, i distinguo.

Il neosindaco milanese Beppe Sala ha detto a “Il Foglio” dell’altro giorno parole interessanti non tanto o soltanto in quanto primo cittadino, quanto, soprattutto, come sindaco voluto fortemente da Matteo Renzi, e dunque i suoi riferimenti alle modalità “imposte” dal Premier sul referendum non nascondono una garbata critica laddove propone bensì un patto con l’opposizione per l’Italicum ma valutando non opportuna la personalizzazione renziana del referendum che ha condotto ad uno scontro nel quale l’apres de moi le deluge significa nient’altro che, in caso di vittoria dei “No”, Renzi si deve dimettere. Niente affatto, chiosa Sala, nessuna dimissione ma un lavoro per così dire in comune. Cosicché le cose referendarie dovrebbero rientrare nel loro alveo naturale, dopo le esondazioni e le forzature del Premier rottamatore. Speriamo.

Il punto più lucidamente impostato è da parte di Stefano Parisi, che dovrebbe diventare coordinatore di una Forza Italia in balia delle dissidenze colonnellesche, e che in questa nuova veste conduce un ragionamento complesso a proposito dei “No” e dei “Sì” in vista degli stati generali dei centrodestra di settembre. Dove, appunto, gli intenti parisiani saranno declinati - e non potrebbe essere diversamente - in termini moderni e innovativi con uno attento ai limiti vistosi della “Costituzione più bella del mondo” e, nel contempo, con un sottofondo sloganistico riecheggiante quella tipizzazione argomentativa berlusconiana nella chiamata della “società civile”, dei “non politici” e, va da sé, degli “uomini del fare” oltre che degli homines novi, novissimi, giovani, giovanissimi... Una linea che ha pur sempre un suo fascino, si capisce, soprattutto là dove pone un velo di discrezione sulle cose non fatte, e sono tante, dagli homines facientes, sullo sfondo di quella società civile che non sembra gloriarsi nel suo splendore etico dopo i decantati meriti, peraltro più annunciati che messi in pratica.

Un consiglio all’amico Parisi: non è che la società civile abbia fallito, il fatto è che, purtroppo, si è dimostrata non dissimile, se non peggio, della classe politica perché considerata non per quello che era e che è e sarà, ma un’astrazione di buone intenzioni in un cielo di moralismi e non di moralità, anche per via dell’incondizionato appoggio interessato ottenuto dall’antipolitica mediatica e grillina per demolire la Polis, ripetendo vent’anni dopo il classico e fatale “buttare via il bambino con l’acqua sporca”. Il risultato è che rischia di vincere il modestissimo e mediocrissimo apparato messo in piedi dalla ditta Grillo & Casaleggio, col suo portato giustizialista senza se e senza ma, e affatto privo di autonomia e capacità progettuale al di fuori delle invettive dei “vaffa” e del grido del film di Sordi “tutti dentro!”. Peraltro, il gioco pericoloso di Renzi nel cavalcare pro domo sua certi versanti antipolitici lo ha condotto a volte, in un cul de sac di cui l’attuale marcia indietro, vedi l’ultima Boschi, sul “referendum” è un chiaro segnale.

Non esiste più alcun bisogno di antipolitica. C’è, semmai, una sempre più crescente domanda di Politica, vera e ricca di passione. Il referendum, dunque. E su un complesso di proposte che meritano ben più di una critica, come del resto accade per ogni referendum. Ma a condizione che prevalga la dialettica e non la riduttività semplicistica o, quel che è peggio, l’insulto. In questo senso l’approccio di Stefano Parisi è importante nella misura in cui la sua piattaforma si iscrive, da lui proveniente dal socialismo, nella più limpida tradizione liberale e riformista per rigenerare un centrodestra la cui crisi è sotto gli occhi da anni. E riproporre un’assemblea costituente, e fin da subito, sempre secondo Parisi, anche una sorta di contratto politico per cambiare il vecchiume ritardante dentro la nostra Carta vetusta di anni, non può che raccogliere apprezzamenti perché la linea del coraggio costituente, già fin da questa legislatura, è quella giusta. Forse, dico forse, anche proponendo un “No” sui generis come quello parisiano, proprio nello spirito anzidetto. Il fatto è che se passano i “No” di cui sono alfieri D’Alema, De Mita, Bindi e, udite udite, il nuovo intellettuale della Magna Grecia Luigi Di Maio “coi suoi fanculotti ora filobbistici, ora antisraeliani”, resta operante non soltanto il bicameralismo della doppia lettura che non pare proprio all’altezza dei tempi del globalismo, ma potrebbe aprirsi una crisi al buio estremamente pericolosa. Salvo che per Grillo che ringrazierebbe, ancora una volta, per il tappeto rosso offerto dagli illusi tipo Matteo Salvini cui la pervicace perversità di lavorare per il Re di Prussia sembra offrire sempre nuove occasioni.

Comunque: Il “dibattitto no!” come gridava Nanni Moretti. Ma forse una meditazione più pacata è d’uopo. A differenza della massima evangelica del “tuo parlare sia sì, no no”, noi, umili peccatori, aggiungiamoci pure un ni, un boh. E un chissà.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:02