Perché Silvio non va da Marco?

Certo, incombono (ci saranno...) i servizi sociali. Certo, maiora premunt. Certo, una trasferta Milano-Roma (e ritorno, non dimentichiamolo) è ardua di questi tempi perigliosi (per Silvio).Certo, potevano pensarci prima. Com’è, come non è, fatto sta che Silvio non va a trovare Marco Pannella in terapia intensiva (Marco ce la farà, oh come ce la farà, più bello e più forte che pria...).

Era, è, sarebbe molto più di un beau geste, ma tant’è. Il problema è in sé, marginale. Nel senso che il pensiero dell’uno è forse già corso al malanno dell’altro, forse rimembrando antichi sodalizi e rimbrotti vaganti per l’etere, e comunque il senso di battaglie comuni rimarrebbe integro se solo si potesse o volesse ripercorrerne la vera ratio. Il punto vero di una mancata visita e del suo gesto simbolico inteso come omaggio ad un lottatore romantico, profeta disarmato in tante guerre contro la malagiustizia, sta appunto in una delle tante, troppe battaglie berlusconiane iniziate e poi fermate, avviate e poi spente (se non sbagliate) - e qui non ci interessa, come invece al Cavaliere, darne la colpa a qualcuno mentre invece risuona il de te fabula narratur - in quella che, a ben vedere, è stata la madre di tutte le sconfitte del centrodestra.

E giustamente (direi eroicamente) il nostro direttore sta portando avanti il compito affidatogli per una sorta di Tribunale Dreyfus di cui si sente il bisogno assoluto, se è vero come è vero che dallo stesso Cavaliere è scaturito il commendevole affidamento. Ma si sa che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Ora, la situazione di Forza Italia, proprio sul punto dolente della giustizia visto in retrospettiva, costituisce la somma degli errori da collocare in un ideale bignami alla rovescia. Che chiama in causa non tanto o non soltanto il leader maximo, quanto e soprattutto i suoi più stretti collaboratori. Specchio delle debolezze di questo gruppo (non) dirigente e, al tempo stesso, ritratto di una galleria di occasioni sbagliate e di arretramenti imposti dall’interno, la mancata riforma della nostra giustizia diventa così il paradigma di una più generale ritirata sul terreno delle riforme, le stesse per cui Forza Italia era nata e sulle quali si sofferma un lucido e dolente Sandro Bondi. Il quale, a sua volta e proprio nella sua non nuova autocritica, sembra andare al nocciolo di una questione nella quale egli stesso fu parte integrante. Ovverosia la classe dirigente di FI.

Che cosa appare desueto e stanco come un rito ripetitivo? Che cosa diventa uno spettacolo terribilmente déjà vu, archiviato nella polvere del tempo? Sepolto dalle frasi già ascoltate nel corso di anni e anni di telegiornali, talk-show e risse televisive in un dilagante profluvio di promesse mancate? Questo qualcosa è l’ingiallimento della foto di gruppo, il suo sfagliarsi nelle assenze volute o imposte, il suo statico riapparire nelle svolte elettorali, l’ultima delle quali indica prepotentemente il gap creatosi fra chi voleva innovare e non l’ha fatto, e chi invece ci sta provando, sia pure con una corsa mozzafiato sulla spinta di un necessitato riformismo da scavezzacollo nella sua pur intima fragilità. La foto ingiallita non è solo colpa del leader indiscusso, per di più caricato della missione di poter riscattare un movimento in indubbia crisi e al quale, e solo a lui, toccherebbe questa mission impossible manco si trattasse di un redivivo, titanico demiurgo. Questo è, per l’appunto, l’errore fatale e, al contempo, l’alibi di un gruppo dirigente, peraltro diviso. L’alibi di riversare sul carisma di un uomo che ha creato un partito vent’anni fa l’intera possibilità di rinascere e ripetendo, giorno dopo giorno, il mantra: che in lui e solo in lui stanno le miracolistiche speranze di riscatto.

E loro? Loro chi sono, che ci stanno a fare? Soprattutto, che hanno fatto in questi vent’anni per darsi una struttura, una mission, una strategia, insomma una visione di se stessi e del Paese? Questo è l’errore fatale. Troppo semplificatoria la giaculatoria della leadership senza la quale suonerebbe il “tutti a casa”. Troppo autoassolutoria. Se Forza Italia è approdata in una sorta di terra di nessuno all’inizio di una lunga traversata del deserto, è troppo comodo tirare in ballo scissioni dedicandosi quotidianamente a distruttive guerre civili, o responsabilizzarne l’uomo solo al comando verso il quale i soggetti di quella foto avevano (e forse hanno) il compito di compiere o far compiere il salto decisivo in funzione di una vera e propria struttura organizzata, presente sul territorio, promossa dalla base, rinnovata nei suoi dirigenti, meritocratica, capace di offrire un’alternativa ancor prima che politica, culturale, liberale, liberista, libertaria: per dirla con quel nostro Marco in terapia intensiva.

Lo sport elettorale che va per la maggiore nel centrodestra è dare la colpa agli altri, invocare il destino cinico e baro, e infine logorarsi in una stolida guerra civile che, alle Europee, rafforzerà soltanto il duo Renzi-Grillo. E alle prossime politiche, in virtù di una legge elettorale, ancorché fortemente voluta e siglata dal Cavaliere al Nazareno, il quasi certo ballottaggio non sembra davvero l’approdo previsto da uno dei due firmatari. Meditate gente, meditate. E andate a trovare Marco Pannella.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:22