La parlantina e il nulla della conservazione

Non c’è mai stata una campagna elettorale che non sia stata preceduta da una qualche manovra illusoria da parte dei Governi in carica per favorire la tenuta del consenso delle forze politiche al potere. Nell’Italia repubblicana è sempre stato così. E anche in quella sabauda e poi sabaudo-fascista è stata la stessa cosa.

Non c’è da scandalizzarsi, allora, se anche nella fase di passaggio tra la Seconda e la Terza Repubblica segnata dalla nascita del Governo di Matteo Renzi la vigilia di una campagna elettorale, quella per le elezioni europee del 25 maggio, l’Esecutivo abbia dato vita alla sua brava operazione di stampo elettoralistico per fare in modo che il Presidente del Consiglio ottenga dalle urne per il Parlamento di Strasburgo quell’investitura popolare che non ha ancora conseguito nelle elezioni politiche domestiche.

Il Def, cioè il Documento di Economia e Finanza presentato e approvato dal Consiglio dei Ministri, va visto in questa luce. Senza scandalismi eccessivi, perché chiaramente condizionato dall’imminenza di una competizione elettorale di grande importanza per il Premier in carica. Ma anche nella consapevolezza che sotto il vestito illusorio di dati e cifre presentati dai media compiacenti e asserviti come la panacea dei mali nazionali non c’è ancora un bel nulla, al di fuori di qualche sforbiciatina ad una spesa pubblica che non si vuole aggredire perché non si può farlo.

Per spiegare la ragione per cui l’aggressione al sistema burocratico-assistenziale che pesa come un macigno insopportabile sull’economia nazionale bisogna ritornare sempre alla questione elettorale. Renzi non è un alieno venuto da Marte a governare il Paese, ma è il segretario del Partito Democratico, erede diretto di quelle forze politiche che nel corso degli ultimi decenni hanno, più delle altre, fondato le proprie fortune sulla costruzione dello stato burocratico, assistenziale e clientelare responsabile della crisi attuale. In questa veste il giovane Presidente del Consiglio ha sicuramente rottamato una parte della vecchia classe dirigente del Pd. Ma non può e non ha alcuna intenzione di intaccare la forza del proprio partito aggredendo la base sociale, cioè l’area del consenso, del partito stesso. Una base sociale che è formata nella stragrande maggioranza dei casi da pensionati e dipendenti delle infinite articolazioni del sistema pubblico.

Non è un caso che tutte le riforme fino ad ora preannunciate da Renzi sfiorino appena lo stato burocratico-assistenziale senza affondare il bisturi nelle grandi escrescenze tumorali che minacciano di uccidere l’economia italiana. L’esempio della riforma delle Province è illuminante. Il nome è stato cancellato insieme all’elezione dei rappresentanti del territorio (il famoso risparmio di tremila politici), ma gli apparati sono rimasti intatti e destinati a perpetuare nel tempo.

Renzi è abilissimo nel presentare se stesso come l’artefice del grande cambiamento. Ma, in attesa di questa promessa innovazione, si sta preoccupando solo della propria campagna elettorale. I più ottimisti sperano che una volta ottenuta quell’investitura popolare che gli manca possa e sappia effettivamente dare corpo alle tante promesse elargite a raffica. Ma il sospetto che sotto la parlantina giovanilistica non ci sia nient’altro che l’ambizione personale incomincia a circolare con insistenza. E in politica, si sa, molto spesso il sospetto è l’anticamera della verità.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:26