Il Tfr e i fondi pensione

I lavoratori dipendenti maturano il Trattamento di fine rapporto che è a tutti gli effetti una retribuzione differita al dipendente che verrà corrisposta dal datore di lavoro quando si conclude il rapporto per: il raggiungimento della pensione di vecchiaia (67 anni), per dimissioni o per licenziamento della risorsa umana. Il lavoratore matura mediamente una mensilità retributiva che gli verrà liquidata al netto delle imposte quando si chiude il rapporto di lavoro. Il calcolo è relativamente semplice per il primo anno di lavoro. Il calcolo viene effettuato sulla “retribuzione lorda annua” diviso 13,5. Al risultato viene tolto lo 0,5 per cento e si accantona l’importo a favore del lavoratore che viene contabilizzato come un debito dell’azienda. Gli anni successivi, prima di procedere al medesimo calcolo per l’anno di riferimento, si deve rivalutare del 1,5 per cento (interessi) quanto accantonato a favore del lavoratore. Inoltre, si deve rivalutare quanto accantonato per un importo pari al 75 per cento del indice Istat del costo della vita. La rivalutazione complessiva del Tfr detenuto dalle aziende è stato complessivamente del 8,3 per cento ovviamente determinato dalla forte crescita dell’inflazione.

I lavoratori subordinati che lasciano il proprio Tfr sono tutelati da un fondo di solidarietà dell’Inps che viene alimentato da una ritenuta sul proprio stipendio o salario. Il fondo garantisce la corresponsione della totalità del Tfr e gli ultimi tre stipendi non pagati da aziende che sono fallite. I fondi pensione complementari hanno invece avuto rendimenti mediamente fortemente negativi. I fondi pensione integrativi vennero introdotti nel 2007 dal ministro del Lavoro, il compianto Roberto Maroni. La crescita dell’aspettativa di vita delle persone in Italia, attualmente la media è di 81,9 anni per gli uomini e 85,97 per le donne, costrinse il governo Berlusconi a disciplinare un sistema complementare pensionistico (seconda gamba) per far fronte ad un sistema previdenziale non più sostenibile sia nel breve che nel medio-lungo termine. Lo squilibrio dei conti, entrate e uscite previdenziali, dell’Istituto di previdenza pubblica non poteva più reggere per il fatto che con l’aumento costante dell’aspettativa di vita, i pensionati continuavano a crescere di numero rispetto ai lavoratori attivi.

Lo squilibrio tra nuove nascite e pensionati, determinava una durata superiore del periodo pensionistico di coloro che stavano in quiescenza. In contrapposizione si consolidava la drammatica continua riduzione delle nascite. Crisi demografica che è devastante sia per il sistema pensionistico che per l’economia. In sostanza meno nascite, meno lavoratori attivi e sempre più pensionati. L’Inps corrisponde le pensioni di vecchiaia, di anzianità contributiva e di inabilità al lavoro con i fondi reperiti dai lavoratori attivi che versano i contributi per pagare i pensionati di oggi. Le prestazioni previdenziali del Inps, ai pensionati dopo la riforma Dini del 1995, sono sempre più povere in quanto si dovette passare dal sistema retributivo – molto generoso per i vecchi pensionati – al contributivo più penalizzante per le nuove pensioni che saranno calcolate sul reddito dichiarato e sulla anzianità contributiva. In sostanza i futuri pensionati, dopo la riforma, avrebbero percepito la pensione basata sull’effettivo versamento dei contributi.

Già con la riforma Maroni si prevedeva che i giovani avrebbero percepito al maturamento dell’età pensionistica, forse, il 60 per cento dell’ultimo reddito da lavoratori subordinati.  Per permettere ai futuri pensionati di percepire una pensione decente i lavoratori furono indotti ex lege a destinare il proprio Tfr – Trattamento di fine rapporto – a fondi pensione integrativi in sostituzione della cosiddetta liquidazione. La prima versione della riforma Maroni prevedeva l’obbligo, per tutte le imprese e per i loro dipendenti, di destinare ai fondi complementari la propria liquidazione. Le imprese, soprattutto le piccole, venivano penalizzate in quanto perdevano una fonte di finanziamento indiretto.

Il Tfr restava nelle casse dell’impresa fino a quando il lavoratore non cessava il rapporto di lavoro. Il tasso d’interesse corrisposto sul Tfr era ed è del 1,5 per cento più la rivalutazione parametrata sul 75 per cento (inflazione) dell’indice Istat del costo della vita. Fu subito modificata la norma che distingueva le imprese fino a 50 dipendenti e quelle oltre di 50 dipendenti. Per le prime, i lavoratori potevano e possono optare di lasciare in azienda il proprio Tfr o destinarlo a fondi pensionistici integrativi. Per le imprese oltre i 50 dipendenti gli stessi dovevano e devono obbligatoriamente destinarli a fondi pensioni complementari. Una volta tanto i lavoratori impiegati nelle piccole imprese che hanno lasciato in azienda la propria liquidazione ne hanno tratto beneficio in confronto a coloro che hanno affidato il Tfr ai gestori dei fondi complementari!

Aggiornato il 02 febbraio 2023 alle ore 10:55