Il cantiere eterno di riforme del sistema pensionistico

Per qualsiasi governo, mettere mano a una riforma organica del sistema pensionistico è veramente complicato per una serie di ragioni: politico-elettorali, economiche e finanziarie. Non sarà facile per il neo ministro Marina Elvira Calderone! Negli ultimi trent’anni si sono accavallati numerosi interventi in materia pensionistica che si sono limitati a cercare di contenere le falle di un sistema che coinvolge tutti i Paesi economicamente avanzati che soffrono di una conclamata crisi demografica. L’aspettativa di vita fortunatamente cresce, la popolazione anziana aumenta costantemente a discapito di una patologica contrazione delle nascite. Da tanti anni si allunga la durata delle pensioni, grazie all’aumento dell’età media, di chi sta in quiescenza e si riducono il numero di lavoratori attivi. Oggi per ogni pensionato, lavora poco meno di 1,5 della popolazione attiva. Senza una significativa inversione della tendenza democratica nel 2050 si prevede che ci sarà un pensionato per ogni lavoratore attivo.

La statistica economica considera “popolazione attiva” chi risiede stabilmente in Italia e ha una età compresa tra i 16 e i 67 anni ovvero da quando si può iniziare a lavorare a quando è prevista l’età di pensionamento per vecchiaia. Le prestazioni pensionistiche, nelle condizioni date saranno sempre più misere in quanto le pensioni attuali vengono pagate con i contributi pagati dai lavoratori attivi. I primi contraccolpi negativi, relativi al peso delle pensioni sulla fiscalità generale, si ebbero con la crisi economica degli anni Settanta connessa allo shock petrolifero che causò le difficoltà delle aziende manifatturiere in Italia. La crescita della disoccupazione, per la chiusura delle fabbriche, ebbe un impatto negativo non solo sull’economia in generale, ma anche la riduzione dei versamenti dei contributi all’Inps da parte dei datori di lavoro e degli stessi lavoratori subordinati.

L’evoluzione storica degli interventi legislativi che sono intervenuti nel tempo, per mitigare gli effetti negativi, sui conti pubblici possono essere così sintetizzati:

La riforma Amato del 1992 (Decreto legislativo 503/1992);

Riforma Dini del 1995 (Legge 335/1995).

La riforma Maroni del 2004 (Legge delega 243/2004);

Riforma Prodi del 2007 (Legge 247/2007);

La Manovra “Salva Italia” del governo Monti (Legge 214/2011) che passerà alla storia come la “Fornero”;

Quota 100, 102 e 103 fortemente voluta dalla Lega di Matteo Salvini;

Opzione donna, Ape sociale.

Delle riforme che si sono succedute negli anni il maggiore economico e sociale impatto lo hanno avuto la Riforma Dini e la cosiddetta legge della professoressa Elsa Fornero. Con la riforma di Lamberto Dini si passa dal sistema retributivo, particolarmente favorevole ai pensionati, a un sistema misto “retributivo e contributivo” un po’ meno favorevole per i pensionati e infine al “contributivo” per i nuovi assunti che prevede il calcolo della pensione basato sul combinato disposto: contributi versati negli anni e anni di lavoro svolto. La legge Fornero (tanto contestata per il famoso “scalone” che ha creato molti problemi ai cosiddetti “esodati”) fissa condizioni inderogabili per accedere alla pensione sia in termini di età che di contributi versati ovvero 41 anni e 10 mesi per le donne e 42 anni e 10 mesi per gli uomini. Oggi la pensione di vecchiaia è fissata per tutti a 67 anni. Per quanto concerne quota cento prevedeva 62 anni di età e 38 anni di contributi, quota 102, 64 anni di età e 38 anni di contributi, quota 103, 62 anni di età e 41 anni di contributi. Opzione donna e Ape sociale sono speciali forme di pensionamento anticipato.

In sostanza si può andare in pensione per inabilità al lavoro, per anzianità contributiva o per vecchiaia. Da liberale, a mio modesto avviso, una riforma deve contemperare il diritto dei lavoratori di andare in pensione a una età compatibile con le loro capacità lavorative, con l’esigenza di far tornare i numeri dell’Inps che garantiscano a tutti di percepire la pensione. Dovrà necessariamente prevedere la flessibilità in uscita con eventuali penalizzazioni e lasciare liberi coloro che desiderano continuare a lavorare oltre il limite dei 67 anni di età. L’età anagrafica non sempre coincide con quella biologica.

Aggiornato il 20 gennaio 2023 alle ore 10:04