Alcune osservazioni sulle scelte di politica economica

Un ennesimo scivolone della presidente della Banca centrale europea, la signora Christine Lagarde, lascia perplessi tutti coloro che sperano in una politica monetaria che sia d’aiuto all’economia reale. A chiusura dell’ultima riunione del Consiglio direttivo della Banca centrale europea, infatti, la presidente della Bce, invece di chiarire le scelte di politica monetaria, è rimasta nell’ambiguità, lasciando solo intendere un possibile ulteriore rialzo dei tassi a breve, ma non dicendo nulla di certo quanto all’importo ed alla durata di una eventuale ulteriore stretta monetaria.

Il risultato è che i mercati, in questi giorni, stanno scontando un rialzo dei tassi di 25 punti base, con una probabilità di circa il 90 per cento di un rialzo di 50 punti base. Per inciso, è un fatto acquisito dalla scienza economica che i mercati preferiscono una piena e corretta informazione e che un comportamento delle autorità monetarie ispirato a questi principi da un risultato migliore in quanto gli operatori si adeguano agli input della Banca centrale, impostando di conseguenza le loro scelte d’investimento.

Bene, a parte le critiche sul modo di gestire la politica monetaria della Christine Lagarde, non si può non rilevare che, nonostante ci siano i segni di un allentamento della spirale inflazionistica, l’aumento dei prezzi è ancora troppo lontano dal target del 2 per cento nel medio periodo, universalmente considerato l’obiettivo principe della Bce. Per altro verso, va osservato che i principali paesi industrializzati (da ultimo anche il Giappone) hanno rialzato i tassi. L’euro, quindi, corre il rischio di perdere terreno, perché in tanti stanno scegliendo di investire sui bond “stranieri”, che pagano un maggiore tasso d’interesse.

Bene, anche se l’inflazione dell’area euro è molto al di sopra dell’obiettivo della Bce e la “concorrenza internazionale” è forte, questo da solo non giustificherebbe una “drastica chiusura dei rubinetti” (come oggi invece i mercati si attendono). In effetti, il persistere della crisi economica e delle tensioni internazionali sui prezzi delle materie prime, connesse anche al proseguimento della guerra in Ucraina, suggerirebbero una maggiore prudenza e di non alzare i tassi d’interesse in maniera repentina.

Ciò premesso, tuttavia, è noto come l’inflazione sia un male che colpisce in primo luogo i risparmi ed i lavoratori dipendenti e favorisce le situazioni di monopolio (ovvero quelle imprese che possono scaricare i loro maggiori costi sui consumatori). Inoltre, la perdita del potere d’acquisto determina costi sociali, legati alle giuste pretese dei lavoratori di recuperare il loro potere d’acquisto bruciatosi con l’aumento dei prezzi. Essa, dunque, va fermata anche se ha un costo sociale non indifferente. L’esperienza dimostra che la riduzione dell’offerta di moneta è efficace per stabilizzare l’inflazione e lo strumento più efficiente per contenere la liquidità è proprio il rialzo dei tassi d’interesse. Di tutta evidenza le conseguenze negative non mancano, anche se, a ben vedere, non sono così pesanti come si può in primo momento supporre ed i danni possono essere contenuti da una accorta politica fiscale.

Vediamo come. Dunque, riassumendo se ipotizziamo un’ulteriore contrazione dell’offerta monetaria da parte della Bce, abbiamo come immediata conseguenza una consecutiva riduzione della domanda di beni e servizi da parte delle famiglie e delle imprese dell’area euro; in effetti, le imprese vedranno aumentare il costo del denaro, che vuol dire un maggior costo nell’anticipazione dei mezzi finanziari e del costo del finanziamento per beni d’investimento (macchine ed attrezzature per la produzione). D’altra parte, anche le famiglie avranno un danno derivante dal maggior costo dei mutui contratti per l’acquisto di beni durevoli e sugli acquisti di beni e servizi fatti a credito. Di certo, come già anticipato, abbiamo come conseguenza un’immediata riduzione della domanda di beni e servizi.

Ma l’effetto si ha anche sull’occupazione? Bene, anche se, come ha dimostrato l’economista Arthur Melvin Okun, la relazione tra occupazione e produzione è meno “forte” di quanto si possa pensare, pur tuttavia un effetto negativo sull’occupazione si registra e, quindi, il tasso di disoccupazione aumenterà; ciò però impatta sull’inflazione, riducendone l’incremento. Ora la riduzione dell’inflazione ha un effetto positivo sulla domanda di beni e servizi che, dunque, tutto considerato si ridurrà meno di quanto inizialmente ipotizzato. In definitiva, e fermandoci ad una analisi di breve periodo, la manovra in rialzo del tasso d’interesse a breve ha un effetto senz’altro positivo sulla riduzione dell’inflazione, ma ha un effetto deprimente sulla domanda di beni e servizi (e quindi sul reddito) che però è assai meno deciso di quanto si possa pensare; in effetti, il contenimento dell’inflazione ha senz’altro un beneficio in termini di potere d’acquisto per imprese e famiglie.

Ma, un risultato ottimale non può prescindere da un intervento pubblico di sostegno al consumo ed alle imprese. È noto che, per via dell’effetto moltiplicativo della spesa per investimenti, l’intervento sulle imprese è più efficace (a parità di risorse impiegate) di quello sulle famiglie. Pur tuttavia due motivi ci suggeriscono (almeno per quanto attiene il nostro Paese) di intervenire sulle famiglie a sostegno della domanda di beni di consumo. Il primo è che il nostro è un mercato caratterizzato da molte situazioni di monopolio, anche locali, che comporta, tra l’altro, una difficoltà di impostare politiche che vadano a beneficio di soggetti che non scaricano i loro costi d’acquisto sui consumatori, l’altro (precondizione per un intervento efficace) è quello considerare come il sistema fiscale italiano sia caratterizzato da una giungla che distribuisce più che malamente il carico fiscale tra imprese e lavoratori e, tra quest’ultimi, tra i lavoratori autonomi e dipendenti.

A parità di reddito, i regimi di tassazione sono, infatti, molto differenti sia nell’importo che nelle modalità di versamento dell’imposta. Rimettere ordine nel caos fiscale richiede, in un paese frammentato come il nostro, un profondo ripensamento dell’attuale politica fiscale ed una lunga fase di contrattazione con le lobbies interessate.

Pertanto, favorire il sostegno al consumo, in particolare quello delle famiglie a più basso reddito, e quindi con una più forte propensione al consumo, è un intervento capace di sostenere la domanda di beni e servizi e quindi di ricondurre l’economia italiana su un sentiero di crescita equilibrata. E mi pare che l’attuale manovra finanziaria del governo in carica si muova proprio in tale direzione.

(*) Direttore Dipartimento di Scienze politiche di UniPace-Onu, delegazione di Roma di UniPeace-N.U.

Aggiornato il 29 dicembre 2022 alle ore 13:11