Monitoriamo il nostro import-export e la nostra offerta portuale

Ritengo utile soffermarmi su alcuni dati riportati dall’ultimo rapporto McKinsey; in particolare nel report si legge: “Alla luce della pandemia, dell’invasione russa dell’Ucraina, delle ormai annose tensioni fra gli Stati Uniti e la Cina, in tanti hanno previsto un futuro deglobalizzato; la guerra ha imposto i rischi geopolitici al vertice delle agende dei capi di Stato e dei ceo delle aziende, la pandemia ha frenato per un paio d’anni i movimenti delle persone, eppure il mondo rimane profondamente interconnesso. Perfino le famigerate strozzature nella catena del valore esemplificate dalle centinaia di navi in attesa di partire da Shanghai e delle altre centinaia alla fonda di fronte al porto di Los Angeles sono state superate senza enormi danni. Anzi, il commercio dei prodotti industriali ha raggiunto un nuovo record nel 2021 malgrado tutti i turbamenti alla supply chain. I flussi commerciali si sono dimostrati resilienti e d’altro canto hanno contribuito alla resilienza in tempi così difficili. Lo stesso fenomeno della tendenza al sovranismo degli investimenti, o perlomeno ad investire in Paesi amici, ha spostato relativamente poco le grandi cifre e le dinamiche di fondo, di sicuro non le ha invertite. Di fatto fino a una ventina di anni fa, il 10 per cento del Pil mondiale dipendeva dai flussi di scambio, oggi tale quota è del 40 per cento e continua – sia pure più lentamente – a salire”.

Eppure di fronte a questo ottimistico quadro si contrappone uno studio della World Trade Organization dell’ottobre 2022 precisa che “il commercio mondiale andrà a fondo nel 2023 di fronte alla forte crisi dell’economia”. Ebbene, ho riportato questi dati e queste contrapposte previsioni proprio per denunciare, ancora una volta, che è ormai diventato impossibile e forse inutile inseguire scenari e previsioni che non solo diventano sempre più inattendibili ma che proprio per il forte effetto della resilienza non sconvolgono, in modo rilevante, ancora le forme ormai consolidate di crescita, quasi sempre, lineare. Questo significa, quindi, che sarebbe un errore ipotizzare una possibile recessione nel prossimo futuro, sarebbe un errore rivedere e ridimensionare la propria offerta nel comparto della produzione e sarebbe un errore ridimensionare le previsioni della nostra offerta infrastrutturale.

Ma allora perché questa diffusa “paura” di un difficile prossimo futuro. Penso che la intera famiglia di esperti nel comparto economico vivano ancora la esperienza negativa vissuta nel 2008 quando su una loro previsione per gli anni 2009 e 2010 di crescita del Pil di oltre il 5 per cento dovettero assistere invece, proprio nel 2009 e nel 2010, ad un crollo del Pil di oltre il -7 per cento. Accanto a questa triste esperienza che mise chiaramente in evidenza la loro limitata capacità nel definire possibili scenari di crescita o di decrescita se ne aggiunge un’altra quella legata alla esplosione di un fenomeno imprevedibile come quello della pandemia.

Questa triste constatazione e questa ormai inequivocabile denuncia di una chiara incapacità di coloro che, almeno fino al 2008, erano rimasti il riferimento portante di tutti i possibili programmi avanzati dal mondo della produzione, ci impone una obbligata revisione di ciò che caratterizzerà d’ora in poi il comportamento della nostra politica economica e, soprattutto, della interazione del nostro Paese con gli altri Paesi specialmente con quelli, che anno dopo anno, stanno diventando sempre più maturi come nel caso specifico alcuni Paesi del continente africano o della America latina. Ma questa nuova lettura dei fenomeni sovra nazionali, questo nuovo approccio nei confronti di mercati fino a pochi anni fa quasi inesistenti, ci porta naturalmente ad una rilettura della nostra offerta portuale (come ricordato più volte l’80 per cento dell’import-export avviene via mare); una rilettura di una offerta che non può rimanere statica, non può rimanere, come avvenuto negli ultimi dieci anni, ferma ad una soglia di movimentazioni di 10 milioni di Teu (container da 20 piedi) all’anno.

E nasce spontanea una domanda: questa stasi nella crescita è dovuta alla non adeguata offerta infrastrutturale dei nostri porti? La risposta è immediata: la offerta portuale senza dubbio va adeguata ma la vera causa è la impossibilità di chi è preposto alla gestione dei nostri porti di offrire condizioni convenienti rispetto ad altre portualità del Mediterraneo e inoltre la rilevante difficoltà a dare efficienza ed efficacia nelle interazioni tra gli impianti portuali ed il vasto sistema retroportuale. D’altra parte se negli ultimi cinque anni, come ho precisato più volte, abbiamo assistito ad una crescita di tre porti come quello di Algeciras, Valencia e Pireo, da un milione di Teu ad oltre cinque milioni di Teu, dobbiamo ammettere che siamo stati noi incapaci, proprio nell’ultimo quinquennio, di esistere, di essere veri concorrenti. Anche in questo caso non abbiamo denunciato a livello comunitario le varie forme di concorrenza scorretta di tali impianti portuali; infatti trattasi di porti dell’Unione europea e quindi non abbiamo neppure denunciato, in sede comunitaria, il dumping nel costo della manodopera.

Ora ci aspetta un 2023 con un distinto scenario previsionale e ci aspetta anche un 2023 con un Governo nuovo che nella campagna elettorale ha più volte ricordato il suo impegno nel rilancio organico della nostra offerta portuale; addirittura avevamo anche appreso, sempre durate la campagna elettorale, della istituzione di un possibile ministro del Mare. In realtà, a mio avviso, non occorre frantumare le competenze dell’attuale ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti ma occorre, con la massima urgenza, affrontare una nuova politica della nostra offerta portuale, una nuova politica della nostra gestione del sistema portuale. Devo essere sincero non credo in riforme globali, non credo perché ritengo che l’intero sistema della nostra offerta portuale deve poter disporre da subito di condizioni capaci di generare convenienze e attrarre interessi e per questo sarebbe sufficiente produrre una norma con soli due articoli:

Le attuali autorità di sistema portuale sono trasformate in società per azioni con la possibilità di ampia partecipazione di capitali privati.

Il 40 per cento del gettito di Iva prodotto dalla movimentazione nei vari sistemi portuali viene trasferito come quota pubblica nelle varie nuove Spa (oggi in porti come quello di Augusta in cui il gettito di Iva supera il valore di 1,7 miliardi di euro lo Stato trasferisce all’Autorità portuale solo 7 milioni di euro, praticamente nulla).

Lo so questa è una operazione d’urto, è un cambiamento storico e forse rivoluzionario, ma se questo Governo vuole davvero creare le condizioni per costruire una forza concorrenziale della nostra offerta e della nostra gestione portuale nel bacino del Mediterraneo, non credo abbia alternative diverse, non credo possa, ricorrendo a strumenti come quello del lontano 1994 (mi riferisco alla riforma 84/94) o del vicino 2016 (mi riferisco al Decreto legislativo 169 relativo alla riorganizzazione, razionalizzazione e semplificazione delle autorità portuali), ottenere qualcosa di più di ciò che sperava di ottenere cioè “nulla”.

(*) Tratto da Le Stanze di Ercole

(**) Nella foto una veduta aerea del porto di Augusta (Siracusa)

Aggiornato il 27 dicembre 2022 alle ore 15:23