Danno economico della pandemia e risorse Ue all’Italia

I bilanci che la Confindustria, la Confcommercio, la Banca d’Italia e l’Istat stanno producendo, ormai da qualche mese, sulla tragica incidenza della pandemia sul sistema socio-economico del Paese, sono davvero catastrofici: 350mila imprese del settore commercio praticamente fallite, il comparto delle costruzioni già in crisi con oltre 120mila imprese non più attive è praticamente fermo. A livello occupazionale siamo già in presenza di circa un milione di disoccupati e la stima del Prodotto interno lordo si attesta ormai su un valore del -16 per cento. In realtà, se volessimo quantificare con un solo dato il danno finora prodotto dalla pandemia, potremmo benissimo utilizzare la soglia di circa 500 miliardi di euro e nel 2021 tale valore potrà raggiungere, addirittura, il valore di 800 miliardi di euro. Questi dati sono falsi? sono gonfiati? Può darsi ma, senza dubbio, la soglia dei 500 miliardi è una soglia difendibile e sicuramente rappresenta il danno minimo che ci lascia in eredità questa tragica esperienza. Allora se questa banale considerazione è difendibile per quale motivo si continua a dire:

1- Il Recovery fund è più importante del Piano Marshall

2- Mai il Paese aveva ricevuto tante risorse dalla Unione europea

3- Dobbiamo sapere spendere questo enorme volano di risorse e dobbiamo spenderlo presto perché non possiamo permetterci il lusso di perderlo

4- Le risorse del Recovery fund possono rilanciare tutti i settori in crisi del Paese

5- Le risorse del Recovery fund possono risollevare l’intero assetto socio-economico del Sud

6- Gli investimenti che con tale Fondo effettueremo nel settore della digitalizzazione rappresenteranno una occasione per il vero rilancio del Paese

7- Grazie alle risorse garantite dalla Unione europea prende corpo nel nostro Paese una grande attenzione all’ambiente e alla ecocompatibilità.

Questa grande occasione, questa che, come viene descritta mediaticamente in più sedi, si configura, a tutti gli effetti, come un grande ed inimmaginabile regalo, questa che viene descritta come una sommatoria di risorse aggiuntive ad una economia sana, ad una realtà produttiva solida, dimentica che l’assetto socio economico del nostro Paese era, prima del Covid, già in una grave crisi e la pandemia ha solo amplificato un simile stato ed aggravato il peso che da tanti anni blocca la nostra crescita e cioè il debito pubblico. L’unico atto responsabile compiuto dalla Unione europea è stato quello di garantire un volano di risorse, a fondo perduto, pari a 81,4 miliardi di euro; è inutile ricordare sempre anche il prestito di 127,4 miliardi di euro perché, ripeto, trattasi di un prestito e quindi di risorse che dovremo restituire con un tasso di interesse basso (il tasso di interesse ormai è sempre, fortunatamente, basso). Questo atto di solidarietà della Unione europea non è esente da un contestuale interesse: l’Italia è il secondo Paese manifatturiero della Unione europea, un default dell’Italia produrrebbe, in pochissimo tempo, un diffuso default dell’intero assetto comunitario, una crisi pericolosissima dell’intera Eurozona. Penso, addirittura, che chi attualmente ricopre ruoli chiave della Unione europea sia molto più preoccupato di chi oggi è al governo del Paese. In realtà, è sufficiente leggere sia le dichiarazioni del Commissario europeo alla economia, Paolo Gentiloni, sia quanto ribadito da Mario Draghi nel documento del Gruppo G30, per misurare le difficoltà che l’Italia incontrerà proprio nei prossimi anni e “l’orlo del precipizio” denunciato da Draghi non sta alle nostre spalle, ma sta proprio nei prossimi mesi. Ed allora, volendo effettuare un approfondimento sulle risorse disponibili in conto capitale (cioè assegnate nella Legge di Stabilità 2021) e quelle provenienti dal Recovery fund, solo per la componente in “conto capitale” scopriamo che nella Legge di Stabilità ci sono circa 29 miliardi che saranno però subito supportati dalla quota del Recovery fund in prestito, cioè dall’importo globale di 127,4 miliardi di euro. Quindi queste risorse, derivando da un prestito, incrementeranno ulteriormente il debito pubblico che, come si evince dal grafico, in questo anno è cresciuto in modo davvero rilevante e, al tempo stesso imprevedibile.

E questa crescita spaventosa ha origine anche dalla politica di sussidi portata avanti dal 2014 in poi; a tale proposito ricordo gli “80 euro” inseriti con apposita norma nel 2014 dall’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, una norma che ha un costo annuale di circa 10 miliardi di euro; ricordo poi “il reddito di cittadinanza”, voluto dal Movimento 5 Stelle, una misura studiata per contrastare la povertà e trovare lavoro ai percettori disoccupati, una manovra che ha un costo per il bilancio pubblico enorme, nel triennio tra il 2020 e il 2022 ammonta a quasi 26 miliardi di euro per le casse dello Stato. Un prezzo molto elevato per una misura finita spesso al centro delle polemiche, non soltanto per gli importi erogati ai percettori, ma anche per le difficoltà incontrate nella fase 2, in cui sono entrati in scena i Centri per l’impiego e i Navigator. Se nel triennio il reddito costerà 26 miliardi, nello stesso arco di tempo alle politiche attive per il lavoro sono destinate risorse per 9,7 miliardi. Questi numeri arrivano da un’analisi del Centro studi di Unimpresa che ha realizzato uno “spaccato” sui conti pubblici italiani, prendendo in esame il budget del triennio 2020-2022 relativo a lavoro, istruzione e ricerca, grandi opere, Unione europea e organi costituzionali. Dalle casse dello Stato, in particolare, usciranno 88,4 miliardi per la scuola, 25,5 miliardi per l’Università, 11,6 miliardi per la ricerca, 15,1 miliardi per le grandi opere pubbliche e le infrastrutture. Il contributo dell’Italia all’Unione europea salirà dai 20,5 miliardi del 2020 ai 24,4 miliardi del 2022 per un totale, nel triennio, di 68,2 miliardi (vedi Tabella 1).

Mi sono soffermato a lungo su questo confronto tra la esplosione del nostro debito pubblico e le risorse provenienti dalla Unione europea per due distinti motivi: il primo per denunciare la enorme distanza tra trasferimenti dalla Unione europea e la reale esigenza della nostra economia, il secondo per ricordare ancora una volta il preoccupante assetto del nostro debito pubblico. In merito alle risorse del Recovery fund, voglio innanzitutto precisare che una prima contestazione la solleverà la Commissione europea sull’inserimento delle risorse del Recovery fund nella Legge di Stabilità 2021; infatti in più occasioni la Commissione e il commissario Gentiloni hanno ribadito che tali risorse non possono essere utilizzate per agevolazioni fiscali o per finalità in “conto esercizio”, cioè sussidi e bonus, ma solo per interventi in “conto capitale”. Pertanto, i trasferimenti potranno essere fatti o per gli investimenti in conto capitale già avviati coerenti ai principi già fissati dalla Unione europea o per nuovi investimenti che, oltre alla capacità di spesa, testimonino una coerenza organica alle finalità strategiche dettate sempre dalla stessa Unione europea. Quindi, forse sarebbe opportuno fissare l’attenzione essenzialmente sulla quota a fondo perduto del Recovery fund pari a 81,4 miliardi e sarebbe bene chiarire subito come si intenda utilizzare la prima tranche del 13 per cento che dovrebbe essere disponibile a valle dell’approvazione del Recovery plan. In un Paese che volesse rispettare gli impegni assunti proprio in questi ultimi mesi sulle priorità del Mezzogiorno, questo primo volano di circa 9 miliardi (13 per cento della quota a fondo perduto di 81,4 miliardi) andrebbe assegnato solo a interventi nel Sud.

Sempre in termini di chiarezza sull’utilizzo del Next Generation Eu, le richieste sollevate da Renzi hanno fatto scoprire quale siano le reali preoccupazioni del ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. Cerco di essere sintetico: Renzi chiede di usare i 127 miliardi di prestito per progetti nuovi e non solo una quota di 40 miliardi e il ministro dell’Economia non condivide tale proposta, perché in tal modo il rapporto fra debito e Pil salirebbe del 5,3 per cento. E così alla fine dell’utilizzo del Recovery plan il debito pubblico rimarrebbe fermo alla soglia tragica del 155 per cento. D’altra parte, nei primi giorni di settembre dello scorso anno il ministro Gualtieri aveva chiesto alla Commissione europea se i 127 miliardi di prestiti entravano nei saldi di finanza pubblica; una simile interpretazione incrementava del 7,8 per cento il debito dello Stato. Purtroppo, anche se dopo molte settimane, la risposta della Unione europea è stata sì, quelle somme entrano nel deficit e nel debito. Questo è un fatto davvero preoccupante sulla vita socio-economica dei prossimi anni, infatti dal 2022 gradualmente le regole di bilancio europee dovrebbero tornare in vigore. Di conseguenza, la prossima legge di bilancio dell’Italia dovrà necessariamente avviare un nuovo ciclo di risanamento dei conti. Tutto questo comincia a far capire meglio la frase prima richiamata di Mario Draghi “siamo sull’orlo del precipizio”. Queste considerazioni senza dubbio disordinate cominciano a farci capire cosa e quali siano gli indicatori macro- economici del nostro Paese: un debito del 160 per cento, un deficit di oltre il 10 per cento, un reddito per abitante tornato ai livelli di ventiquattro anni fa e mancano solo quindici mesi per diventare credibili agli occhi dei creditori internazionali.

Ed è bene convincersi che la crisi sarà senza dubbio diffusa nell’intero Paese e, in modo particolare, a soffrirne di più sarà il Mezzogiorno: infatti, come ho più volte ricordato, il blocco degli investimenti in infrastrutture per un arco temporale di sei anni non ha consentito e, a maggior ragione, non consentirà ora la riduzione di quel gap con il Centro-Nord. Escluso l’asse ferroviario ad alta velocità Napoli-Bari non ci sono altri interventi in grado di essere completati funzionalmente in un arco temporale di quattro cinque anni. Invece, non tanto il Centro ma il Nord del Paese sta diventando sempre più “una macro regione del centro Europa”; infatti con i tre corridoi in corso di realizzazione e cioè l’asse ferroviario Torino-Lione, il terzo valico dei Giovi che rende fluidi i collegamenti tra il porto di Genova e quello di Rotterdam e il nuovo valico ferroviario del Brennero, le Regioni Piemonte, Liguria, Lombardia, Alto Adige, Veneto, Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia, aumenteranno il loro peso nella formazione del Pil del Paese superando la soglia del 60 per cento e rafforzeranno il Pil pro capite degli abitanti del nord rendendo possibile il superamento della soglia dei 45mila euro, mentre nel Mezzogiorno assisteremo ad un ulteriore riduzione di tale valore fino alla soglia di 15mila euro. Per queste motivazioni, cerchiamo di comparare attentamente le risorse del Recovery fund con il reale stato del Paese e del Mezzogiorno, cerchiamo di misurare da subito la ulteriore esplosione del debito, cerchiamo di utilizzare essenzialmente le risorse a fondo perduto. E, ripeto sino alla noia, cerchiamo subito di investire concretamente tali risorse nel Mezzogiorno. Non è il mio terrorismo mediatico perché queste mie denunce sono ormai presenti in tutti gli atti del ministero dell’Economia e delle Finanze e, cosa davvero inimmaginabile, hanno portato la Ragioneria Generale dello Stato a bloccare 15 articoli e a modificarne 60 della Legge di Stabilità, proprio per evitare di incrementare ulteriormente il nostro debito pubblico.

(*) Tratto dalle Stanze di Ercole

Aggiornato il 20 gennaio 2021 alle ore 12:31