La rivoluzione delle abitudini può distruggere la città

venerdì 16 ottobre 2020


Supponiamo che a marzo o ad aprile del prossimo anno sia disponibile un vaccino per salvaguardarci dal “Covid19”, nasce allora spontaneo un interrogativo: tutte le nuove abitudini acquisite in un imprevedibile e difficile anno scompariranno e si tornerà a vivere come prima? Torneremo tutti a rivivere quella che in fondo è stata una “abitudine consolidata di ogni singola vita umana”? Tutti siamo convinti che non sarà così; tutti, in varie occasioni, abbiamo ripetuto che nulla sarà come prima. In pochi mesi, in realtà, abbiamo capito che è possibile lavorare “da remoto” e tutti, dopo poco tempo, siamo oggi in grado di misurarne i vantaggi e gli svantaggi. Senza dubbio il primo grande vantaggio è l’incredibile flessibilità che ne deriva. Questo potrebbe essere un grosso vantaggio per chi, per esempio, convive o ha dei bambini di cui prendersi cura e ha quindi la necessità di essere a casa in determinati momenti della giornata.

Lavorare da remoto, viene detto da più parti, dà la possibilità di decidere ogni giorno quale potrà essere il proprio ufficio! La maggior parte dei lavoratori decide di farlo da casa, ma potenzialmente potrebbe lavorare da qualsiasi parte del globo che abbia una connessione internet decente. Sempre più aziende scelgono di decentralizzare il loro operato con i lavoratori da remoto. Il motivo è semplice: si risparmiano tutti i costi legati all’avere un luogo fisico, quindi affitto, bollette, e tutta la burocrazia che ci sta dietro. Alcune addirittura lavorano solo in questo modo e non hanno uffici fisici. Queste aziende, definite da Wikipedia “aziende distribuite” godono del vantaggio di non dover per forza assumere lavoratori locali, ma possono reclutare dipendenti da qualsiasi parte del globo, riuscendo così a garantirsi collaboratori con le qualità e le competenze che meglio le soddisfano.

Infatti, il lavoro da remoto è come un’arma a doppio taglio: se da un lato ci regala una grande flessibilità, dall’altro mette costantemente alla prova la nostra capacità di autogestione. Quando si è soli, infatti, è facile che si diventi poco diligenti o che si inizi ad essere vittima delle distrazioni o a rimandare le scadenze rischiando di non fare bene il proprio lavoro. Lavorare da remoto richiede uno sforzo notevole di disciplina verso noi stessi.

Dopo questa banale e forse ingenua elencazione dei vantaggi tentiamo di analizzare gli svantaggi, tentiamo di misurare le negatività: l’ambiente di lavoro è sempre un’occasione per socializzare non solo con i colleghi ma anche con chiunque si incontri sulla via per il lavoro. Lavorando da remoto questa parte per molti piacevole dell’andare a lavorare ogni giorno non esisterà più. Bisognerà abituarsi a passare un sacco di tempo in compagnia di noi stessi e questa non è una cosa che tutti riescono a fare. Chi lavora da remoto deve essere in grado di portare a termine un compito o un progetto senza bisogno di alcuna supervisione. Se si decide di lavorare da soli è importante essere completamente autonomi e in grado di gestire gli imprevisti che ogni singola professione prevede.

In questo confronto tra i vantaggi e gli svantaggi di un modo di lavorare che con il rafforzamento della digitalizzazione sarà sempre più attraente e sicuramente conveniente viene, meno ciò che, per quasi un secolo e mezzo, è stato il concetto di “città”; mi riferisco alla definizione classica di Max Weber: “Ambito territoriale caratterizzato dalla presenza di un complesso di funzioni e di attività integrate e complementari, organizzato in modo da garantire elevati livelli di efficienza e da determinare condizioni ottimali di sviluppo delle strutture socio-economiche”.

Questa definizione è senza dubbio stata alla base di tutti coloro che, nell’intero arco temporale del Novecento, si sono cimentati nella redazione di Piani regolatori delle nostre città. E sempre in tutti i processi di pianificazione, almeno in quelli corretti, si è tenuto in gande considerazione il rapporto tra ambito della residenza ed ambito del lavoro e si è dato grande peso alle logiche ed alle modalità di collegamento. In realtà nella pianificazione di una città si è sempre tenuto conto anche dei vantaggi economici generati dall’indotto creato proprio dalle attività del terziario: gli uffici generano sempre una miriade di attività collegate nell’intorno; dai servizi legati all’alimentazione o a quelli relativi a sedi per incontri istituzionali o per convegni o a quelli di diretto interesse da parte di determinate professionalità (l’intorno di un tribunale è ricco di uffici legali). Ebbene, proprio questa elevata e crescente entropia per Weber e in genere per la cultura della mia generazione ha rappresentato la vita e la crescita economica dei fattori dell’urbano. Quindi prende corpo un convincimento: non è corretto effettuare bilanci di convenienza quali quelli fatti prima sullo smart working perché sono bilanci che rischiano di distruggere la forza funzionale ed economica di ciò che chiamiamo città.

Non sarà facile restare indenni da una quasi obbligata tendenza a reinventare un modello lavorativo che sembra regalare, al lavoratore del comparto delle attività terziarie, una inimmaginabile sommatoria di convenienze, ma forse bisognerebbe precisare che la digitalizzazione non ha l’obiettivo di costruire un teatro privo di attori ma ha solo l’obiettivo di annullare o ridimensionare in modo sostanziale tutte le criticità e tutti gli inutili spostamenti tra gli erogatori di informazioni e di servizi e i relativi fruitori.

Molti riterranno queste mie considerazioni cariche di un convinto e ormai indifendibile conservatorismo ma la mia è solo una paura che, innamorandosi di queste nuove abitudini, si perdano delle gerarchie proprie della città, si perdano le naturali distinzioni tra “costruito” e “non costruito” e si scopra poi, dopo molti anni, che si è tornati ai “fuochi”, termine che dal Medioevo fino ai primi anni dell’Ottocento indicava la singola unità familiare soggetta a fiscalità. Il sistema dei fuochi si basava sulla coincidenza tra focolare e nucleo familiare e questo, a mio avviso, porta verso una grave crisi di ciò che oggi chiamiamo “società”.

(*) Tratto dalle Stanze di Ercole


di Ercole Incalza (*)