Rapporto annuale Istat: l’economia recupererà in parte nel 2021

La seconda metà dell’anno ci consegna un’incerta fotografia della situazione economica e sociale italiana. Al dato congiunturale del 2019 si è aggiunta la crisi sanitaria. Infatti, nel primo trimestre, il Pil ha segnato un crollo del 5,3 per cento. I segnali più recenti includono: inflazione negativa, calo degli occupati, marcata diminuzione della forza lavoro e caduta del tasso di attività, una prima risalita dei climi di fiducia. Le previsioni Istat stimano per il 2020 un forte calo dell’attività economica, solo in parte recuperato l’anno successivo.

Il quadro che emerge dal Rapporto annuale dell’Istituto di ricerca è senz’altro desolante. La crisi determinata dall’emergenza sanitaria ha investito l’economia italiana in una fase caratterizzata da una prolungata debolezza del ciclo. Lo scorso anno il Pil è cresciuto di appena lo 0,3 per cento e il suo livello è ancora inferiore dello 0,1 per cento rispetto a quello registrato nel 2011. La politica di bilancio fortemente espansiva, necessaria per contrastare la crisi e resa possibile dalla sospensione del Patto di stabilità e crescita, avrà quest’anno un impatto rilevantissimo sui saldi di finanza pubblica e sul rapporto tra debito e Pil. Lo scorso anno, l’Italia ha proseguito il percorso di risanamento della finanza pubblica, favorito da un ulteriore ampliamento dell’avanzo primario (l’1,7 per cento del Pil). Il rapporto deficit-Pil è sceso dal 2,2 per cento del 2018 all’1,6 per cento. Questi progressi hanno consentito di mantenere invariata l’incidenza del debito sul Pil (al 134,8 per cento) che tuttavia è rimasta molto sopra la media Uem (all’84,1 per cento).

Le imprese rimaste attive nel corso del lockdown appartengono soprattutto a comparti che trasmettono gli impulsi su scala estesa, ma lentamente. Il ritorno ai livelli pre-crisi potrebbe richiedere tempi piuttosto lunghi anche alla luce delle stime sugli effetti inter-settoriali delle misure di lockdown introdotte in Italia e all’estero. L’Istat evidenzia che con le misure di lockdown introdotte in Italia e all’estero la caduta del valore aggiunto complessivo, rispetto a uno scenario di riferimento con assenza di shock, “è pari al 10,2 per cento ed è determinata per 8,8 punti percentuali dalle dinamiche interne e per 1,4 punti dagli effetti importati”. Di questi ultimi, 0,2 punti, rileva il rapporto, “sono ascrivibili alla riduzione di domanda tedesca, 0,4 alla dinamica dell’area euro (esclusa la Germania) e 0,8 punti a quella del resto del mondo”. Gli effetti diretti e indiretti del lockdown si sostanziano in contrazioni significative del valore aggiunto di tutti i principali comparti dell’economia italiana (non meno dell’8 per cento). Gli impatti misurati nell’esercizio sono più accentuati per alcune attività del terziario (-19,0 per cento per alloggio e ristorazione; -11,3 per cento per i servizi alla persona; -10,3 per cento per commercio, trasporti e logistica) e per le costruzioni (-11,9 per cento). La componente importata è piccola nei servizi ed è ampia nell’industria (tra 2,7 e 3,5 punti), in ragione della sua maggiore integrazione negli scambi internazionali e nelle catene globali del valore.

La crisi di liquidità del 2020 potrebbe incidere fortemente sull’operatività delle imprese “qualora l’accesso a risorse esterne non fosse agevole”. Una stima dell’impatto del lockdown sulla liquidità di circa 800mila società di capitale italiane (che rappresentano quasi la metà dell’occupazione e il 70 per cento del valore aggiunto del sistema produttivo) indica che all’inizio della fase di graduale riapertura delle attività, a fine aprile, quasi due terzi delle imprese (circa 510mila) avevano, verosimilmente, liquidità sufficiente a operare almeno fino a fine 2020 mentre oltre un terzo sarebbe risultato illiquido o in condizioni di liquidità precarie. L’Istat sottolinea inoltre “che il crollo del fatturato a partire dal mese di marzo 2020 ha accentuato le difficoltà finanziarie delle imprese, ponendo sfide severe anche per quelle con una solida situazione economico-finanziaria”. In particolare, rileva l’Istat, si stima che il 16,5 per cento (quasi 131mila unità) fosse già illiquido alla fine del 2019; un ulteriore 13,3 per cento (circa 105mila) lo sarebbe diventato tra gennaio e aprile 2020; per il restante 5,9 per cento (oltre 46mila imprese) il deterioramento delle condizioni di liquidità è tale da mettere a rischio l’operatività nel corso del 2020.

I problemi di liquidità appaiono diffusi in molti settori del nostro modello di specializzazione: costruzioni, bevande, autoveicoli, altri mezzi di trasporto nell’industria; consulenza aziendale, alloggio, commercio di autoveicoli, agenzie di viaggio e servizi di trasporto marittimo e aereo nel terziario. La crisi di liquidità delle imprese incide sia nell’immediato, causando fallimenti o cadute strutturali, sia nel lungo periodo, compromettendo la capacità di recupero delle imprese che avrebbero avuto margini di cassa. Secondo i risultati di questa analisi circa un terzo delle società di capitale classificabili a “produttività elevata” risulta a fine aprile illiquido o presenta una liquidità insufficiente a sostenere, fino alla fine del 2020, flussi di cassa pari a quelli registrati in media nei primi quattro mesi dell’anno.

Aggiornato il 03 luglio 2020 alle ore 20:00