Chi di Mes ferisce...

Recovery Fund: una partita di bari. Per gli italiani, l’oggi funziona un po’ come quell’aforisma che dice: “Ci sedemmo dalla parte del torto, perché tutti gli altri posti erano occupati”.

Se tutti, maggioranza e opposizione, continuano a lanciare i loro inchiostri ideologici nel ventilatore sempre in movimento dalla Storia, allora alla fine della giostra nessuno ne uscirà senza macchia sulla livrea. I veti incrociati nella guerra degli interessi squisitamente elettorali e contrapposti ha una sola soluzione di equilibrio: lo stallo. Eppure l’Europa ha parlato chiaro: se Paesi come l’Italia che presentano un rapporto Pil/Debito pubblico nettamente squilibrato (il nostro si suppone che a fine anno 2020 tocchi la vetta mai raggiunta del 160 per cento, causa pandemia) non utilizzano da subito quelle centinaia di miliardi fin da ora disponibili, con particolare riferimento al Mes “alleggerito” per il finanziamento (a debito ma con interesse molto basso e restituibile in dieci anni) della sanità territoriale post-Covid, allora sarà molto difficile convincere i così detti Paesi frugali a rimuovere le loro pregiudiziali per l’utilizzo da parte dell’Italia delle risorse finanziarie sotto forma di grants (donazioni a fondo perduto) del Next Generation Ue. In materia, Governo Conte e soprattutto Movimento 5 Stelle fanno i sordi del compare, ovvero continuano a far finta che la manna europea possa essere utilizzata per spesa corrente e abbattimento della tassazione su persone e imprese.

Sordità politica destinata, però, all’insuccesso pieno: le risorse del Recovery Fund seguono necessariamente le procedure dei Fondi di coesione europei, per quanto riguarda il relativo controllo e utilizzo e, pertanto, se davvero desidera accedere a quei finanziamenti, l’Italia è obbligata a presentare progetti dettagliati (con relativi, rigorosi cronoprogrammi, stati d’avanzamento e costi previsti), in base alle linee di indirizzo già fornite in precedenza dalla Commissione all’Italia. E intanto, l’opposizione che fa? Gioca a scacchi, a quanto sembra. In particolare, la Lega si trova a doversi districare tra due insanabili contraddizioni. Da un lato, mira alle elezioni politiche anticipate indette “prima” della celebrazione del referendum (dato che il taglio dei parlamentari scatta dalla prossima legislatura), conservando così l’attuale numero complessivo di seggi parlamentari, ovvero mille circa tra Camera e Senato. A tal fine, accelerando la sua campagna acquisti soprattutto tra i Cinque Stelle, la Lega potrebbe conseguire agevolmente il doppio obiettivo di disinnescare il referendum, spodestando Conte e facendo ampio spazio nelle sue liste ai transfughi del Movimento. D’altro canto, però, far cadere il Governo troppo presto entro luglio significherebbe prendersi la responsabilità di fare la manovra economica a ottobre e andare a uno scontro ad armi impari con l’Ue sulla ripartizione dei fondi per la ricostruzione post-Covid sui quali invece, con ogni probabilità, una volta lasciati a loro stessi, Giuseppe Conte, Partito Democratico e Movimento 5 Stelle sono destinati inevitabilmente a implodere “dopo” la celebrazione dell’Election-day a settembre 2020.

Nell’intervista a Libero del 29 giugno rilasciata dal social-liberista Ignazio Visco, l’ex ministro del Tesoro del Pd (che precisa di non aver rinnovato la sua tessera a quel partito!) muove precise e circostanziate accuse al sistema politico italiano. In primis, quella di aver perso il treno “quando il tessuto produttivo italiano non è riuscito ad adeguarsi alla globalizzazione, alle nuove tecnologie digitali e ai mutamenti strutturali dell’economia mondiale”, con la conseguenza di aver perduto le grandi imprese migrate all’estero (vedi Fca) o acquistate da capitali stranieri, e di non aver steso una rete di protezione adeguata per le piccole imprese. Il secondo rilievo riguarda i rischi di rendere “perenne” l’assistenzialismo di Stato che ha consentito oggi di attenuare la crisi economica da Covid-19. E sarebbe un errore gravissimo, secondo Visco, dato che 10 euro spesi per sostenere i redditi ne danno solo 5 di ritorno, mentre al contrario se la stessa cifra viene impiegata in investimenti genera un moltiplicatore che va da 0,5 a 2, per cui si arriva fino a raddoppiare la somma investita. Per una resa immediata, sostiene Visco, vanno finanziati i Comuni per far ripartire l’economia delle opere pubbliche e occorre poi cambiare il peso fiscale sui settori dell’economia. Questo perché oggi i redditi da lavoro costituiscono il 47 per cento del Pil mentre invece i meccanismi attuali del welfare si basano su logiche contributive passate quando quel peso era pari al 70 per cento! Per capirci: l’Erario per ogni euro prelevato alle rendite di capitale ne prende tre dai redditi da lavoro! Chiaro il rimedio?

L’ultimo, pesantissimo rilievo di Visco riguarda la rivoluzione a parole dei modus operandi della Pubblica amministrazione, in ossequio al mito della digitalizzazione e dello smart-working. “Il punto è riorganizzare le procedure interne, fare un piano industriale per ogni settore della P.A. così come si fa nelle aziende private, dando poi ai dirigenti pubblici responsabilità e autonomia: bisogna passare da una logica giuridico-formale a un approccio produttivo. Ma ci vuole collaborazione da parte del settore: nessuna riforma può essere fatta contro chi deve subirla!”.

Occorrono, cioè, sistemi informativi e algoritmi molto potenti e performanti per tenere in piedi il modello per obiettivi e verifica dei risultati come accade per le grandi aziende private, previa adeguata formazione avanzata delle risorse umane (milioni di impiegati!) disponibili. Vallo a dire a chi pensa che “uno-vale-uno”!

Aggiornato il 01 luglio 2020 alle ore 10:00