Prevedibili rialzi dello spread sui bond italiani a 300 punti base?

venerdì 15 maggio 2020


Sono giorni di tensione questi. Densi di appuntamenti e di attese. Di certo le sorti del governo Conte e l’approvazione del “Dl Rilancio” accumulano le tensioni sul debito pubblico italiano, che continua a essere sotto la lente d’ingrandimento degli investitori, soprattutto esteri.

A confortare noi tutti ci sono le ultime aste di titoli di Stato offerti dal Mef che hanno avuto di certo un esito positivo e riportato tranquillità nel mercato. Tuttavia, rimangono forti i dubbi per il futuro sulla capacità del Tesoro di raccogliere nuovi capitali sui mercati a costi moderati.

A sostenerlo sono importanti operatori sul mercato italiano. Ed i dati sembrano confermare tale paura. Il momento il costo medio di tutto il debito italiano – anche quello emesso in passato con tassi d’interesse più alti rispetto a quelli che vediamo oggi – si aggira intorno al 2,5% ma ciò non significa che le nuove emissioni si stabilizzino a tale prezzi.

Pesa, infatti il fatto che debito pubblico è detenuto per oltre il 30 per cento da mani straniere. In particolare, se analizziamo l’andamento dei rendimenti dei titoli benchmark per le scadenze a 1 anno, 5 anni, 10 anni e 30 anni, possiamo capire come l’allentamento delle tensioni è soprattutto rilevato sulle scadenze più a breve, mentre, su quello a medio/lungo termine i rendimenti rimangono su livelli molto elevati, se confrontati con altri Paesi europei. Ed il confronto va, naturalmente, a quei Paesi che hanno meritato lo spregiativo termine di Pigs.

In particolare, comparando l’andamento dei rendimenti dei bond decennali italiani con Spagna, Portogallo e Grecia si nota una “calma” sull’obbligazionario solo apparente e, in definitiva, legata agli acquisti della Banca centrale europea.

Ma quali sarebbero le cause scatenanti che potrebbero mettere ancora più pressioni sullo spread italiano?

Archiviato, per il momento, il nodo delle agenzie di rating (taglio a sorpresa di Fitch e nulla di fatto di S&P’s e Moody’s), e rinviata tale partita a dopo l’estate, la questione resta la prossimità del debito italiano vicino alla soglia dello speculative grade. Il motivo è presto detto: negli ultimi 10 anni, non sono state fatte riforme strutturali – sempre promesse – in grado di mettere il Paese al riparo dagli shock o, quantomeno, a renderlo meno vulnerabile rispetto ad esempio a Paesi come la Spagna.

Troppo ormai giurano che il rischio che il rating del debito italiano possa finire sotto la soglia di Investment grade e finire nel paniere degli High Yield è solo questione di tempo. E a conferma di ciò, ci sono le misure preventive della Bce che vanno dall’acquisto di titoli di Stato Junk, deciso qualche settimana fa, alle recenti discussioni sul possibile intervento sui titoli corporate che sono finiti nell’area speculative grade.

Insomma, dobbiamo prepararci al peggio e anche gli investitori potrebbero farlo?

C’è solo una certezza. In caso di declassamento del debito in area junk i grandi fondi uscirebbero dall’investimento in Btp lasciando la sola Bce, o quasi, a coprire le emissioni. Un rischio altissimo, che impone di provvedere con immediatezza e che, necessita di un mix di interventi.

Oltre all’impegno della Bce, è necessario che si ottenga incremento del Pepp pari almeno pari 500-750 miliardi di euro ed un Recovery Fund davvero operativo ed in grado di garantire l’emissione di bond europei perpetui.

(*) Le opinioni sono a titolo personale e non coinvolgono l’Ente di appartenenza.


di Enea Franza (*)