Un reddito di emergenza anche per chi lavorava in nero? Le ragioni per dire “no”

Nel corso di una recente intervista, il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano ha espresso la necessità di adottare, laddove la crisi dovesse prolungarsi, “misure universalistiche per raggiungere anche le fasce sociali più vulnerabili, le famiglie numerose, oltre a chi lavorava in nero”. Alle parole del ministro sono seguite a stretto giro quelle di Tito Boeri che ha invocato un aiuto subito per tutti coloro che “il governo non è riuscito ancora a raggiungere, famiglie ma anche chi lavorava in nero, badanti o immigrati”. Persino Ernesto Maria Ruffini, direttore dell’Agenzia delle Entrate, ha affermato la necessità di un sostegno alle fasce di popolazione che vivono ai margini della società, indipendentemente che siano lavoratori non regolari o altre tipologie di cittadini (come riporta Italia Oggi di ieri: “L’agenzia delle entrate sdogana il lavoro nero”).

I Cinque stelle parlano di “reddito i emergenza per tutti”, inclusi quindi gli irregolari; e il Pd, per bocca del viceministro all’Economia Antonio Misiani, conferma l’idea di un “potenziamento in via transitoria del reddito di cittadinanza per ricomprendere casistiche non coperte dagli ammortizzatori tradizionali”. Ancora una volta, lavoratori in nero compresi. Nessun sussulto sui banchi dell’opposizione. Poche, timide e sommesse le voci dissenzienti. Mi prendo quindi il rischio di andare controcorrente e di dire cose “politicamente scorrette”. Ricordo, innanzitutto, che secondo l’ultimo rilevamento Istat i lavoratori irregolari in Italia sono 3 milioni 700mila, con una perdita annua stimata per il fisco pari a 42,6 miliardi (secondo la Cgia, Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre), cui vanno aggiunti “gli 11 miliardi di evasione contributiva” ai danni dell’Inps, denunciati nel 2017 dall’allora presidente Tito Boeri (non è un omonimo: è sempre quello che oggi propone un reddito per i lavoratori in nero). E che a rimetterci, oltre all’erario e all’Inps, ci sono anche i tanti imprenditori, artigiani e commercianti onesti che, spesso, subiscono la concorrenza sleale di chi si avvale di manodopera irregolare.

Chi ha evaso, sotto qualsiasi forma, ha arrecato un danno incommensurabile ai concorrenti e al Paese. Quanti interventi di sostegno ai più bisognosi sarebbero stati possibili con queste somme? Quanti tagli alla sanità (e non solo) avrebbero consentito di evitare? E poi. Quante volte il presidente Sergio Mattarella ha ribadito a gran voce che il lavoro irregolare va contrastato in tutti i modi, che la legislazione c’è, è puntuale e bisogna attuarla e rispettarla? In quanti, dal presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro, Marina Calderone, al nuovo capo dell’Ispettorato nazionale del lavoro, Leonardo Alestra hanno continuato a dichiarare a chiare lettere: “No a sfruttamento e lavoro irregolare?”.

È giusto – per andare sul concreto – che i fondi per l’emergenza finiscano anche nelle tasche del posteggiatore abusivo, del venditore di sigarette di contrabbando, del commerciante senza licenza, del cameriere in nero, di chi finora ha vissuto a carico della collettività, sottraendo risorse a chi ha sempre regolarmente versato tasse e contributi? Si dirà: molti lavoratori in nero lo sono senza colpa, per necessità o perché costretti. D’accordo. Ma la replica è semplice: se si tratta di subordinati, denuncino. Pagherà il datore di lavoro. Se si tratta di irregolari tout court (il prototipo rappresentato dal posteggiatore abusivo) saranno fatti loro. E poi, soprattutto, la posta in gioco è troppo alta: si tratta di prevenire il rischio che il malessere sociale possa portare a violenze, mettendo a rischio la tenuta sociale del Paese, come lascerebbe presagire la notizia dei primi “espropri proletari” in alcune aree del Paese.

Ma siamo davvero sicuri che tanto basti per abdicare a quei principi di legalità e a quei valori su cui si fonda ogni Paese democratico, premiando la furbizia e il sistematico aggiramento delle regole? Non sarebbe meglio, per una volta, compiere quello che (per citare Roberto Saviano) in Italia rappresenterebbe un vero atto di rottura: pretendere il rispetto della legalità e non premiare ancora una volta chi ha “imbrogliato” lo Stato, ovvero tutti noi? Perché, ricordiamoci, finita l’emergenza, si tornerà a vivere normalmente, e allora convincere tutti i cittadini onesti, “cornuti e mazziati”, che fino ad oggi hanno rispettato le regole e pagato tasse e contributi, che a continuare a farlo è giusto e conveniente potrebbe diventare un problema.

(*) Professore ordinario di Diritto del lavoro dell’Università di Modena e Reggio Emilia

Aggiornato il 03 aprile 2020 alle ore 12:49