Come controbilanciare l’incombente crollo economico italiano

Il coronavirus può costare all’Italia il fallimento. Già non siamo salvabili dall’Ue col “meccanismo salva-Stati” perché troppo indebitati; se ora diventiamo pure i peggio infettati perdiamo anche i proventi del turismo, particolarmente dei cinesi, nostri principali clienti nell’ancora proficuo campo della moda, uno di quelli che soprattutto loro dovranno abbattere. Ridiventa quindi interessante oggi quel rilancio economico che, mentre tutti gli altri Paesi crollavano nella crisi Lehman, noi italiani ci siamo goduto fra il 2009 ed il 2011. Nessuno qui lo ricorda, ma ora è il momento di riscoprirlo nella statistiche riportate nelle pagg. 20-27 del link http://www.apiow.org/wp-content/uploads/2020/01/altro-danno-di-Mafia-e-UE.pdf Si può aggiungerne un’altra delle tante qui sotto, dove si vedono gli investimenti nella nostra economia reale impennarsi nel 2009, per poi crollare ancora peggio dopo il 2011:

In quelle pagine del link si trovano anche le motivazioni della censura ed il suo effetto micidiale sulla nostra economia: in effetti, nel 2009 abbiamo solo riscoperto un nostro rapporto corretto con l’Ue, che dal 2011 abbiamo nuovamente rinnegato, o meglio, misconosciuto. Bisogna solo riscoprirlo e rivendicarlo.

Gli italiani oggi ignorano i nostri rapporti con l’Ue in una materia essenziale. Persino un giornale di solito ben informato come “Il Fatto quotidiano”, riportando che Farage nel suo discorso d’addio all’Unione europea ha ricordato con nostalgia i Trattati del 1951 e del 1957, ha citato solo quello Ceca previsto per 50 anni, scaduti nel 2002, ignorando il secondo della coppia di Trattati di Roma, costitutivo della Comunità Europea dell’Energia Atomica, Ceea, detto brevemente “Euratom”, che invece è perfettamente vigente e vincolante. Scrive quel giornale: “Le prime forme di cooperazione rafforzata tra gli Stati europei datano 1951 e 1957 (trattati di Parigi e di Roma) e si connotano per l’istituzione di una “comunità” europea del carbone e dell’acciaio e di una “comunità” economica europea (Cee).

Avendo rappresentato per anni tutte le professioni europee come presidente del Ceplis, Conseil Européen des Profession Libérales, posso invece testimoniare e documentare che gli altri Paesi europei l’Euratom lo conoscono benissimo e ne discutono spesso perché vogliosi di usarlo al meglio: gli inglesi ad esempio hanno motivato la loro Brexit soprattutto perché gelosi dei francesi, che col pretesto di una sicurezza esagerata fanno costare il nucleare dell’Ue tre o quattro volte più del necessario, così da conservare il vantaggio competitivo da loro acquisito in materia. Soprattutto per risucchiare le delocalizzazioni nostre: noi italiani siamo infatti l’unico Paese manifatturiero ad aver censurato tutto sul nucleare, persino la natura dei due referendum ad esso ambiguamente dedicati nel 1987 e soprattutto 2011. In realtà, nessuno di quei quesiti referendari chiedeva di rinunziare alle nostre centrali nucleari!

Perché non potevano chiederlo, pur volendolo?

Perché con il secondo dei due Trattati di Roma del 1957 anche noi ci siamo dichiarati “Risoluti a creare le premesse per lo sviluppo di una potente industria nucleare, e ci siamo impegnati ad “assicurare, particolarmente incoraggiando le iniziative delle imprese, la realizzazione degli impianti fondamentali necessari allo sviluppo dell’energia nucleare”. Inoltre, con l’art. 75 della nostra Costituzione noi ci vietiamo di abrogare per referendum, letteralmente, le “leggi di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali. Fra cui va sicuramente intesa la legge 99/2009, di rilancio del nucleare: come si vede al link questa dizione è stata esplicitamente estesa dalla stessa Corte costituzionale, testualmente “alle leggi di esecuzione in senso stretto (sent. n. 16/1978), precisando che restano dunque sottratte all’abrogazione referendaria... quelle norme, la cui emanazione è, per così dire, imposta dagl’impegni medesimi: per le quali, dunque, non vi sia margine di discrezionalità quanto alla loro esistenza e al loro contenuto, ma solo l’alternativa tra il dare esecuzione all’obbligo assunto sul piano internazionale ed il violarlo, non emanando la norma o abrogandola dopo averla emanata. (sentt. nn. 30/1981, 26/1993, 8/1995, 27/1997). Nella sentenza 31/1981 (in materia di centrali nucleari), la Corte costituzionale ha esteso la categoria in esame fino a ritenere inammissibili i quesiti da sottoporre a referendum diretti ad abrogare non solo le leggi di esecuzione dei trattati internazionali ma anche le leggi produttive di effetti strettamente collegati all’ambito di operatività dei trattati medesimi. In particolare, ha affermato che “la responsabilità che lo Stato italiano assumerebbe verso la Comunità e verso gli altri Stati membri a cagione della ‘disapplicazione’ del Trattato conseguente all’abrogazione della normativa oggetto del quesito è una responsabilità - come la Corte ha affermato nella sentenza n. 30 di pari data - che è stata riservata alla valutazione politica del Parlamento, con il risultato di sottrarre le leggi di esecuzione dei trattati internazionali e quelle produttive di effetti strettamente collegati all’ambito di operatività dei trattati medesimi (come, nella specie, la Corte ritiene siano le norme in parola) alla consultazione popolare, alla quale si rivolge il referendum abrogativo previsto dall’art. 75 della Costituzione (sent. 31/1981).

In effetti, proprio la valutazione politica del nostro Parlamento ha adempiuto all’impegno preso nel Trattato di Roma appunto con la legge n. 99 di metà 2009, aprendo la suddetta formidabile ripresa economica del nostro Paese, dimostratosi finalmente deciso a rientrare nel Mercato Comune Europeo ad armi pari, invece che con la masochistica autolimitazione del referendum del 1987. Per questo era chiaro che la prima formulazione del terzo quesito referendario del 2011, centrata prolissamente contro la legge suddetta del 2009, non era affatto ammissibile come anti-nucleare, se non nei limiti meramente securitari cui una prima sentenza della Corte Costituzionale n. 26 del 12 gennaio 2011 cercava di ridurla, in analogia alla ammissibilità già sentenziata faticosamente dalla Corte sui quesiti referendari del 1987. Un’ulteriore ragione per non ammetterla al voto poco dopo l’incidente di Fukushima stava nella dolosa esclusione del nostro Paese dalle informazioni sul nucleare pretese da vari articoli del Trattato Euratom: a pag. 28-29 dell’ultimo link citato, o anche al link http://bit.ly/2tzxjQz è riportata la scandalosa documentazione della illegale esclusione delle nostre popolazioni dalle informazioni sul nucleare (previste ed imposte dal Trattato Euratom) che invece hanno portato le altre popolazioni europee ad accettare ed anzi a contendersi sia i depositi di scorie radioattive, sia anche le centrali stesse. Ancor più dopo Fukushima, dove il crollo della diga idroelettrica ha ucciso migliaia di abitanti, l’esplosione delle due centrali turbo-gas ha ucciso tre addetti, mentre nessuno è morto (se non uno per annegamento) nella centrale nucleare allagata. Per questo ad es. gli Svedesi, che prima si affidavano equamente tanto al nucleare che all’idroelettrico, dopo Fukushima hanno deciso che le prossime dieci centrali le faranno tutte solo nucleari. Ma nell’Italia disinformata, o peggio contro-informata, il nostro Governo decretò il rinvio di ogni decisione per un anno di riflessione prima di procedere col rilancio del nucleare.

Proprio su quel giustificatissimo decreto di rinvio, ecco che ambedue le Corti, sia quella di Cassazione che quella Costituzionale, in pochissimi giorni, dirottarono una pretestuosa riformulazione del terzo quesito referendario. Orbene: da un lato è vero che al Governo, invocante la decadenza del quesito in forza dell’art. 39 della legge 352/1970, le due Corti potevano obiettare che quel decreto di rinvio non abrogava completamente le norme di rilancio del nucleare. Ma, dall’altro lato, questa ragionevole obiezione al Governo non restituiva affatto al terzo quesito, raccolto da Grillini e Dipietristi, la verginità rispetto all’art. 75 della Costituzione! Peggio di come già era successo col referendum del 1987, assolto rispetto all’art. 75 dalla Corte perché con la sua vaghezza non cancellava direttamente le centrali, ma concerneva solo la loro localizzazione e la relativa sicurezza; anche questa seconda volta, già con la sentenza n. 26 del 12 gennaio 2011, prima ancora del decreto di sospensione, la Corte ha ribadito che le norme europee impongono solo, una volta che il legislatore nazionale abbia optato per l’energia atomica, nella misura ritenuta opportuna, misure e standard di garanzia per la protezione della popolazione e dell’ambiente contro i rischi di contaminazione”. Insomma, neppure questa volta si è escluso il nostro nucleare! Tanto meno dopo il decreto di sospensione: è stato solo ripetuto ed aggravato un micidiale gioco delle tre carte: abrogare il decreto di sospensione, rendendo il rilancio del nucleare immediato, non offendeva certo l’art. 75, tutt’altro; però agli italiani è stato fatto credere che votando “sì” cancellavano la nostra attuazione del Trattato di Roma, mentre stavano facendo l’esatto contrario!

A loro scusante, quei magistrati potrebbero avere le minacce che stanno emergendo sia dai link citati, sia dalla intervista che il 20 maggio 2019 ha rilasciato Ferdinando Imposimato sull’origine delle morti di Falcone e Borsellino, in direzione convergente. Ma la crisi economica italiana ha ormai raggiunto dimensioni intollerabili, incompatibili con questo immane spreco di risorse nazionali.

(*) Consigliere di Astri ed ex presidente dell’Ordine degli Psicologi Italiani

Aggiornato il 24 febbraio 2020 alle ore 12:19