L’Italia e il nuovo Carlo Magno

La storia si ripete. Se si ragionasse con la mente sgombra da pregiudizi e senza i paraocchi della propaganda demagogica, lo si capirebbe.

In questi giorni la polemica politica si è spostata sulla questione della riforma del Mes (Meccanismo europeo di stabilità), meglio noto come “Fondo salva-Stati”. Per alcuni si tratterebbe di perfezionare un’opera meritoria posta a tutela dei Paesi membri dell’area euro che in futuro potrebbero trovarsi in difficoltà finanziarie; per altri, invece, la riforma del Mes è l’ennesima trappola predisposta dai padroni del vapore europeo ai danni dell’Italia per annichilirne le ambizioni da potenza industriale. La prima posizione trova sostenitori nel centrosinistra, la seconda è spinta dalla coalizione della destra plurale a cui ha fatto sponda, a sorpresa, l’opinione di qualche autorità finanziaria indipendente che ha denunciato l’esistenza di seri rischi per il sistema creditizio italiano provenienti dall’incidenza delle nuove condizionalità individuate per il funzionamento del Meccanismo. In particolare, preoccupa gli esperti ciò che è scritto nel preambolo al testo di riforma a proposito del Meccanismo di risoluzione unico e del coinvolgimento dei privati nella ristrutturazione dei debiti sovrani. In attuazione degli accordi assunti tra Parigi e Berlino e sintetizzati nella dichiarazione congiunta franco-tedesca di Mesenberg del 19 giugno 2018, gli ipotetici aiuti del Mes verrebbero erogati a seguito di un’attenta valutazione della sostenibilità del debito del Paese richiedente, passibile di ristrutturazione imposta “ipso iure”, e comunque a condizione del “private sector involvement”, un modo elegante per dire che in fase d’intervento i titoli di Stato detenuti dai privati potrebbero non essere ripagati o potrebbero essere rimborsati in quota parte.

Ora, il 70 per cento dei titoli del debito pubblico nostrano è detenuto da soggetti privati residenti in Italia, e la porzione maggiore direttamente dalle banche. Il meccanismo pensato dai partner franco-germanici equivarrebbe a un disastro totale per la stabilità finanziaria del nostro Paese. Si invererebbe l’incubo dell’applicazione del bail-in ai risparmiatori italiani. In altre epoche per cose del genere si sarebbero combattute guerre sanguinose. Oggi non accade. Tuttavia, non è accettabile l’ipotesi che l’Italia possa essere spinta alla bancarotta da un piano ben orchestrato dei Paesi partner dell’Ue. Di soluzioni alternative ve ne sono. Anche sensate. Come quella che propone il solito lungimirante professor Paolo Savona dalle colonne de “Il Sole 24 ore” con un articolo dal titolo esplicativo: “Il Meccanismo europeo di Stabilità ha bisogno dei titoli senza rischi”. Ma il nodo irrisolto resta quello dell’unità europea. La riforma del Mes, come altre iniziative messe in cantiere a Bruxelles, troverebbe ben altra accoglienza e minori diffidenze se, una buona volta, si ponesse all’ordine del giorno la discussione prodromica sull’unificazione politica dell’Europa. La si vuole fare o no? E se sì, come? Si tratta di questione antica, già affiorata nel secolo scorso a cavallo tra le due guerre mondiali.

Di là da come la si pensi, il nodo al momento inestricabile conduce alla posizione della Germania a cui nei fatti spetta, per densità demografica e capacità produttiva, un ruolo centrale in qualsiasi ipotesi di passaggio dall’Unione a una federazione di Stati che trasferiscano totalmente la sovranità alla nuova entità sovraordinata. Oggi come negli anni Venti/Trenta del Novecento è uguale la causa giustificativa della necessità di un’unificazione: un mondo che si polarizza sulla forza centripeta di alcune grandi potenze non consente sufficienti spazi di autonomia e competitività alle piccole patrie del Vecchio Continente. Ieri, i nazionalismi che, all’inizio del Novecento, avevano contribuito alla caduta degli imperi centrali avrebbero dovuto lasciare il passo a una nazione europea ispirata da una sorta di “dottrina Monroe”, finalizzata a impedire che il Vecchio Continente restasse schiacciato nel braccio di ferro tra Stati Uniti e Unione sovietica. Oggi, i player che possono ambire a un ruolo planetario e che puntano a declassare l’Europa a mercato di sbocco delle loro produzioni sono aumentati, soprattutto nell’area estremo orientale del mondo. Fissato il perimetro, quale il centro propulsivo?

Siamo di nuovo a interrogarci sul ruolo della Germania e sulle tendenze suprematiste alimentate dall’asse franco-tedesco. Il Paese governato dalla signora Angela Merkel non è il Terzo Reich. Purtuttavia, manovrare sui mercati finanziari per influenzare le decisioni politiche di altri Stati, provocare crisi di stabilità finanziaria a Stati amici agendo sulla leva dello spread, imporre l’austerity nella spesa pubblica dei singoli Paesi dell’Unione, concepire norme capestro a cui obbligare i partner come condizione vincolante per beneficiare della copertura del meccanismo di stabilità europeo, sono manifestazioni egemoniche che presuppongono la conquista e l’esercizio di un potere effettivo.

La sensazione che si coglie dall’impostazione del negoziato sulla riforma del Mes è quella di un braccio di ferro tra un blocco egemone franco-germanico, post Brexit, che mira a instaurare un “Neuordnung Europas” e qualche realtà isolata ma resiliente, che cerca di opporvisi. L’esistenza di una cabina di comando gestita dai Paesi più forti potrebbe non essere in assoluto un male se però gli esiti dessero una crescita armonica di tutti i Paesi interessati. Invece, il sospetto è che la volontà di potenza franco-germanica scada nel miope soddisfacimento di egoismi nazionali. Per stare al caso del Mes, chi vi si oppone denuncia che l’impianto della riforma sia concepito per drenare risorse dai Paesi donatori da destinare alla riparazione delle falle del sistema bancario tedesco in forte fibrillazione. Come è stato al tempo del cosiddetto salvataggio della Grecia, che ricevette aiuti finanziari non per lenire le sofferenze della popolazione ma per ripianare i debiti contratti con le banche tedesche e francesi.

Il vulnus strutturale della pretesa franco-tedesca, palesata a Mesenberg lo scorso anno, di unificare l’Europa sotto la guida dell’“Asse carolingio”, resta quello della miopia delle classi dirigenti di Francia e di Germania che non sanno pensare in grande. Se, per reazione, crescono le istanze nazionaliste in ogni Stato membro dell’Unione, la colpa è di un disegno egemonico sbagliato. Se Emmanuel Macron la smettesse di credersi Napoleone e se Berlino avesse imparato dalla Roma dei Cesari a costruire un impero è possibile che adesso il piano d’unificazione della nazione europea avrebbe compiuto un pezzo di strada. La miopia e l’egoismo sono la maledizione del neo-imperialismo franco-teutonico dal quale siamo costretti a difenderci, non perché anti-europeisti ma per puro istinto di sopravvivenza. Bisognerebbe riprendere uno sguardo critico sugli ultimi decenni, costellati di cambiamenti epocali, non tutti di segno positivo. Sono di questi giorni i festeggiamenti per il trentennale della caduta del muro di Berlino. A differenza della comune vulgata che, in pieno mood conformista, esulta per la riunificazione, c’è chi, controcorrente, si ostina a chiedersi se consentire la riunificazione delle due Germanie non sia stato un gigantesco abbaglio di cui doversi pentire nei tempi a venire. E noi tra costoro.

Aggiornato il 25 novembre 2019 alle ore 11:09