Cosa ci segnala la curva dei rendimenti?

Da diversi anni le banche europee sono un campo minato per gli investitori globali per due problemi: la mancanza di redditività associata alle elevate perdite di credito e la mancanza di trasparenza. Prima del 2018, quando la Banca centrale europea impartì la direttiva per l’identificazione e il trattamento dei crediti inesigibili, le banche dell’Unione la ignorarono, mantenendoli nei libri come fossero esigibili. Così il sistema bancario si è trascinato un decennio di detriti infetti. Questo non ha giovato alla sua trasparenza già compromessa dal fatto che a differenza degli Stati Uniti che hanno un sistema di tribunali fallimentari che proteggono investitori e azionisti, in Europa il processo di risoluzione delle insolvenze si risolve regolarmente in intoppi che favoriscono i grandi debitori e i loro sponsor politici. Sono stati soprattutto questi fattori a impedire che i capitali affluissero al settore e, da un punto di vista sistemico, a pregiudicare la ripresa europea. I problemi ricorrenti nelle banche europee sono rimasti una fonte di rischio permanente per l’Europa.

Il nocciolo della questione è che ogni singola banca, anche grande, è troppo debole per sostenere l’onere di una pulizia generale dei crediti contenziosi e non ha le risorse economiche per ristrutturare i problemi più ampi di qualità degli attivi. La Deutsche Bank e Commerzbank, fra le più grandi banche europee, ad esempio, hanno da decenni problemi di redditività ma non riescono a far pulizia nei loro bilanci né a raccogliere capitali per farla. Insieme hanno tentato un progetto di fusione, presto abbandonato dopo aver scoperto che avrebbe sommato solo le loro perdite. La Deutsche Bank aveva infine trovato un partner ideale con cui integrarsi, il colosso Bnp Paribas, ma era una banca francese e per il governo tedesco non era politicamente accettabile una fusione che aiutando Deutsche Bank rischiasse di intaccare il prestigio e gli interessi della Germania (Angela Merkel il 23 gennaio a Davos ha avuto l’impudenza di tenere un discorso contro la cecità degli interessi nazionalistici).

Tutto ciò a dimostrazione che Eurolandia è sempre stata una fiaba. Si è voluta una moneta unica senza però essere disposti ad accettare di fondere, alla bisogna, le rispettive economie ma restando decisi a mantenerle separate e contrapposte. Del resto lo schema del bail-in non è stato inventato per responsabilizzare le banche, i loro azionisti e obbligazionisti, ma per evitare che i governi di un paese salvassero banche di altri paesi, circostanza che invece si verifica quando c’è un governo e un’economia unici, come negli Stati Uniti per evitare crisi di contagio che all’opposto incombono in permanenza sul sistema bancario europeo.

Ora in questo settore la situazione si sta avvitando. Le banche, nel disperato tentativo di recuperare redditività, stanno attuando licenziamenti di massa. La Deutsche Bank ha già avviato un piano di esuberi di 18.000 dipendenti, la Commerzbank di 4.300 dipendenti e UniCredit, la più grande banca italiana, ha annunciato un taglio di 8mila dipendenti e la chiusura di 450 filiali entro il 2023. Ma queste cifre sono poca cose se confrontate al numero totale dei licenziamenti ufficiali nelle banche europee che dal 2015 che supera quota 425mila. Secondo l’agenzia Bloomberg, la cifra è, in realtà, ancora più alta dal momento che diverse banche procedono ai licenziamenti senza divulgare i loro piani.

Come mai così tante vittime? A causa di un’epidemia tutta particolare, a sé stante, che non può essere contenuta, il cui vettore virale è stato diffuso dai tassi di interesse negativi imposti dalla Banca centrale europea a partire dal 2014 e che hanno gravemente infettato il sistema bancario. Poiché il 60 per cento dei margini delle banche è costituito dal reddito da interessi, finché resteranno negativi, le quotazioni azionare tenderanno ai minimi creando l’aspettativa di un implosione dell’intero sistema finanziario. E da qui, l’implosione e il contagio si estenderebbe all’economia reale, alle politiche nazionali nonché alle relazioni geopolitiche.

La crisi dei tassi negativi si sta manifestando nella forma di un’ennesima crisi di liquidità. Infatti tassando la liquidità delle banche, la Bce le ha costrette a investire in mercati ad alto rendimento ma notoriamente illiquidi, come il settore immobiliare, o il debito dei paesi emergenti. La conseguenza è che le banche dell’euro ora non dispongono più del grado di liquidità per soddisfare i requisiti di capitalizzazione previsti da “Basilea III” per far fronte a possibili crisi finanziarie. Era prevedibile che tassi di interesse negativi infettassero l’euro come valuta di riserva, diventata una patata bollente di cui sbarazzarsi subito per evitare l’interesse negativo che la colpisce non appena viene trasformata in deposito presso la banca centrale.

Il suo ribasso e il correlativo rialzo del dollaro sono dovuti anche al fatto che molte banche europee hanno erogato prestiti in modo aggressivo negli Stati Uniti dove la domanda di indebitamento è superiore a quella europea. Durante la prima metà del 2018, tali banche hanno prestato circa 53 miliardi di dollari assumendosi il rischio di cambio e beneficiandone. La tendenza ribassista ha infatti trasformato la moneta unica in valuta ideale per il carry trade: le banche, indebitandosi in euro per acquistare il dollaro che rende di più, ne hanno apprezzato il cambio e, ripagando alla scadenza il debito nell’euro svalutato, realizzano due capital gain: quello sugli asset in dollari e quello relativo allo spread di rendimento tra le due valute. Tutto ciò ha concorso al rialzo delle borse statunitensi ma, allo tempo stesso, al peggioramento della crisi della moneta unica. Quattro anni fa, su questo giornale pubblicavamo l’articolo Al collasso con euro debole e dollaro forte, (6 gennaio 2014) prevedendo questo trend e tempi biblici che, francamente, stante la situazione, non vediamo come si possano evitare.

Aggiornato il 17 febbraio 2020 alle ore 12:59