Il pantano deflazionistico e il ruolo delle banche centrali

Forse il 2019 sarà considerato come anno “spartiacque”, l’anno in cui tutte le politiche che hanno in qualche modo funzionato in passato non funzioneranno più in futuro. Quando il tracollo finanziario globale del 2008 ha cominciato a devastare le economie, le banche centrali del G10 temendo un ritorno agli anni Trenta, hanno creato trilioni di unità monetarie riversandole nei mercati finanziari. Tale esperimento monetario, il Quantitative easing, avrebbe dovuto ripristinare la crescita economica. Ma il denaro creato non è andato alle imprese in difficoltà, a chi ha perso il lavoro o la casa. È andato a già ricchi, che non ne avevano bisogno; è andato alle grandi società, che lo hanno usato per riacquistare le proprie azioni e pagare ai loro dirigenti stipendi stellari. È andato alle banche, quelle stesse i cui prestiti sconsiderati hanno contribuito ad affossare le economie. Una nuova Grande Depressione è stata evitata, ma certamente non c’è stata una ripresa. C’è stato, invece, un decennio di stagnazione.

Ora, perfettamente consapevoli di aver ridotto a quasi zero tutte le opzioni, all’inizio del 2019, le autorità monetarie del G10 hanno tentato di “normalizzare” le loro politiche. Normalizzare significa ridurre i bilanci, vendendo attività invece di comprarle e alzare i tassi di interesse riportando lentamente il sistema finanziario e l’economia su livelli che erano normali nelle epoche precedenti e che lasciavano spazio per rispondere a recessioni e crisi espandendo il credito e abbassando i tassi. Ma, sfortunatamente, tali autorità si sono rese subito conto di non poter ridurre le flebo di eroina monetaria alle economie avendole ormai rese dipendenti da stimoli, nei mercati obbligazionari, nelle Borse e nei mercati immobiliari. Non appena hanno sentore che gli stimoli cessino, questi mercati oscillano subito nell’instabilità come la cronaca di questi ultimi mesi ha confermato. L’intera struttura economica di “ricchezza” dipende da bolle che se dovessero scoppiare a seguito di rialzi dei tassi di interesse, farebbero fallire governi, fondi pensionistici, assicurativi, società e persone fisiche, tutti ormai costretti a rinnovare i propri debiti per l’incapacità di estinguerli. Per tale motivo ogni entità economica appare solvibile ma non più capace di generare crescita.

La prima causa di tutto ciò origina soprattutto da quella visione che domina la politica monetaria e che pone l’accento sulla sovvenzione e salvataggio dei debitori, a spese dei risparmiatori e produttori, una visione disastrosa di cui oggi vediamo gli effetti. Esiste una grande quantità di debito del settore pubblico (12 trilioni di euro, equivalente al pil dell’eurozona), che ha rendimento negativo. Gli unici investitori di questi titoli folli sono fondi pensione, banche e istituzioni obbligati per statuto a acquistarli (quando il capo della Banca centrale europea, Mario Draghi, la scorsa settimana ha fatto i suoi commenti sulla necessità di abbassare ancora i tassi di interesse, sapeva di parlare a questo mercato asservito). I tassi di interesse negativi sopprimono il costo di indebitamento ai governi ma è ingenuo credere che siano una forma di stimolo all’economia perché limitano il credito al settore industriale trasferendo ricchezza dal settore privato a quello pubblico. La politica monetaria è così diventata un freno alla crescita globale. Meno capitale privato nel sistema finanziario significa meno leva nell’economia per promuovere crescita e posti di lavoro e pertanto più deflazione.

La seconda causa di questa deflazione è che i governi del G10 hanno raggiunto nelle loro regioni il limite effettivo delle loro capacità di stimolare artificialmente l’attività economica attraverso la spesa pubblica. Neppure nel breve termine ogni incremento di debito genera un impatto in termini di creazione di posti di lavoro e spesa in consumo. È la legge dei rendimenti decrescenti. Proprio a causa di questa legge universale l’eurozona è scivolata in un pantano deflazionistico di tipo giapponese ma senza la coesione politica del Sol levante e senza meccanismi fiscali per uscirne.

Le banche centrali si sono affezionate a un ruolo e modello di crescita teorico che non funziona più nella pratica. Potrebbe aver funzionato fino alla fine del Novecento... ma oggi è antiquato. Non c’è solo il fatto di aver creato troppo debito nel sistema, c’è stata la nuova realtà di una Cina e un’India che hanno mobilitato una forza lavoro che non esisteva nei decenni d’oro del dominio economico occidentale, mentre, all’opposto, la popolazione di questo mondo sta invecchiando sempre più velocemente. Le dinamiche economiche e demografiche sono cambiate, ma il modus operandi delle banche centrali è rimasto saldamente ancorato a un’epoca passata.

Nell’universo economico del G10 le munizioni monetarie si sono ormai esaurite. E il problema non è, come scrive di recente Il Sole 24 Ore, di trovare candidati perfetti per le banche centrali ma di cambiare il loro modello di intervento. Ora che hanno gonfiato le attività finanziare fino alla stratosfera, come ottenere maggiori rendimenti e guadagni? Quanti trilioni di dollari, euro e yen dovranno ancora comprare per mantenere le bolle e tranquillizzare i mercati senza destabilizzare le valute? Quanto debito spazzatura, devono ancora incamerare dai governi prima di intasare le arterie dell’economia? Queste sono le domande da porsi.

Aggiornato il 02 luglio 2019 alle ore 13:03