Proposta di riduzione del debito pubblico

Lo scostamento dagli impegni di bilancio ha riaperto il rischio di procedura di infrazione per l’Italia e riacceso, in Parlamento e con Bruxelles, un duro confronto sulle politiche del Governo. Vero è che il rigore, imposto dalle regole europee, non ha portato, negli ultimi anni, né riduzione del debito, né tantomeno crescita, nonostante l’Italia abbia, da circa venti anni, il bilancio primario in attivo. Ossia spenda, per i servizi offerti, meno di quanto incassi, al netto degli interessi sul debito. Solo il vigoroso saldo dell’export riesce a mantenere la crescita, di qualche decimale, sopra lo zero.

Nonostante l’Italia continui ad avere fondamentali più solidi di altri, (consistente patrimonio privato, contenuta posizione debitoria netta verso l’estero, basso indebitamento privato, superamento degli stress test Eba da parte dei primari gruppi bancari, disoccupazione calante e inferiore a Spagna e Grecia) si allarga la forbice dello spread tra Btp e Bund, in misura peggiore di qualsiasi altro Paese del gruppo dei cosiddetti Piigs. Gli investitori temono - immotivatamente, diremmo - che l’Italia non voglia o possa far fronte al suo ingente debito, che ha sforato i 2.300 miliardi (e che, peraltro, v. infra, almeno non ricomprende, ai sensi delle regole di Maastricht, i debiti commerciali verso fornitori). Default mai avvenuto nella sua storia, al contrario di Germania, Austria e altre nazioni che hanno ristrutturato, più di una volta, il proprio debito. In realtà, nessun debito sovrano viene mai completamente rimborsato ma, semplicemente, rinnovato ad ogni scadenza (tecnicamente: “rolled over”) per coprire gli importi maturati, mediante gli incassi di nuovi titoli collocati sul mercato. Finché i tassi di interesse nominali sul debito sono inferiori alla crescita del Prodotto interno lordo, non c’è problema. Quando il rapporto si inverte, il debito pubblico tende a crescere. Il mercato riflette, quindi, la maggior o minor fiducia nella traiettoria dei conti pubblici e la preoccupazione che, prospettive di infragilimento dell’economia, mettano a repentaglio la liquidità dei titoli del debito pubblico. Altri Paesi del Sud Europa ricevono miglior trattamento dai mercati - nonostante deficit o disoccupazione più alti - “sulla fiducia”, come dicevamo, per aver intrapreso una strada verso la stabilizzazione dei propri bilanci e assicurato osservanza degli obblighi verso l’Unione Monetaria. E tassi più bassi permettono la sostenibilità di politiche di bilancio espansive.

Tra i Paesi del cosiddetto gruppo dei Piigs, l’Italia è l’unico a non aver mai ottenuto o chiesto aiuti finanziari. Persino gli acquisti di Bund, del Quantitative easing della Banca centrale europea, in vari momenti, sono stati superiori a quelli dei Btp. Al contrario, l’Italia, negli anni più acuti della crisi, ha dovuto partecipare ai salvataggi di altri Stati membri, assumendosi (come terza grande economia dell’area euro) ulteriore debito per circa 40 miliardi di euro, per garantire prestiti, a tassi agevolati, ai partner in difficoltà. In questo contesto, oltre all’incremento del proprio debito, paradossalmente, l’Italia si è trovata a ricevere interessi sui prestiti erogati, a tassi più bassi di quelli che gravano sul proprio debito. La politica economica europea ha le sue colpe: troppi gli squilibri della locomotiva tedesca; insensato mantenere il tasso di inflazione a livelli così bassi (da anni l’Europa manca gli obiettivi di inflazione programmata); irragionevole persistere sul rigore, quando l’economia rallenta in mezzo Continente; illogico contrastare lo strumento degli Eurobond (per trovarsi, poi, comunque, tutti insieme, costretti a onerosi interventi straordinari, nella prossima crisi finanziaria di altro Paese membro); assurda e sleale competizione per attrarre, in questo o quel paese, investimenti e per offrire domiciliazioni fiscali di comodo. L’Italia, in forza del suo peso e dei suoi impegni economici in Ee, dovrebbe, soprattutto, spingere per riformare il patto di stabilità e le, irragionevolmente rigide, regole del Fondo Salva Stati che bloccano importanti risorse nei bilanci nazionali dei partecipanti (non basterebbe porre un cespite a garanzia invece di onerare i bilanci con debito addizionale?). Gli obiettivi di finanza pubblica di Maastricht appaiono, sempre più, irrazionali e irrealistici: nessuna grande economia al mondo ha un rapporto debito/Pil al 60 per cento.

Per quanto riguarda l’Italia, è innegabile che il fardello degli interessi sul debito sia un freno allo sviluppo. Ma non è aumentando la pressione fiscale - già ai livelli più alti nell’area Euro - o invocando patrimoniali (a ogni annuncio, scappa sempre più liquidità verso vari ospitali approdi) che si potrà dare impulso alla crescita. E, piuttosto che aumentarla, sarebbe necessario ridurre la pressione fiscale, su imprese e cittadini, per rimettere in moto il volano dello sviluppo, indispensabile strumento per riequilibrare il rapporto debito/Pil. Invece di rivolgersi al patrimonio - come auspicato da qualche malevolo, quanto improvvido, partner europeo - dei suoi già vessati cittadini, lo Stato dovrebbe avviare un’azione per valorizzare e privatizzare il proprio, spesso sottoutilizzato e costoso da mantenere. Poiché non esistono grossi capitoli di spesa facilmente aggredibili ma mille rivoli di uscite, il percorso di riequilibrio dei conti dovrà essere svolto con un lavoro certosino di tagli di spesa e di razionalizzazione degli introiti. Qualche miliardo potrebbe essere recuperato dall’Ici non pagata dagli enti ecclesiastici (come, tra l’altro, sancito da recente sentenza Europea). Altri dalla rimodulazione delle concessioni, che spesso generano ricavi inferiori al costo delle strutture amministrative che le gestiscono. Oltre che rimboccare la, difficile e ormai stretta, strada delle privatizzazioni. La direzione da prendere, infatti, è quella della riduzione del perimetro dello Stato.

Sull’ammontare degli attivi in mano pubblica esistono solo stime indicative (solo la Francia, in Europa, ha realizzato un censimento completo): a fronte di un esposizione passiva complessiva della Pubblica amministrazione di oltre 2.600 miliardi (comprendente il montante dei titoli, al loro valore di mercato, oltre ad altri impegni non classificati nel debito pubblico, secondo le regole contabili europee, quali i derivati o i debiti commerciali verso fornitori) si calcola che partecipazioni, immobili e altri cespiti non finanziari, non superino i 1.000 miliardi. Per quanto riguarda il patrimonio immobiliare, più della metà di esso, ricade nella sfera degli enti locali. Buona parte è occupata per l’esercizio delle attività centrali e periferiche della pubblica amministrazione, o data in concessione a terzi. Precedenti esperienze di cartolarizzazione immobiliare (Scip 1 ma, soprattutto, Scip 2) hanno prodotto risultati deludenti. Errori di valutazione e previsionali, carenze gestionali e dei processi di vendita (affidata agli enti previdenziali cedenti). A fronte di un valore di mercato vicino ai 20 miliardi di euro, lo Stato ne ricavava poco più della metà. Una larga parte di immobili (anche di pregio) rimasta invenduta, per mancanza di mercato o perché incagliata in contenziosi e ricorsi, veniva, infine, riacquistata dagli enti cedenti, a spese dello Stato. A dimostrazione che lo Stato è un cattivo compratore e un pessimo venditore. Dopo il grosso processo di privatizzazioni degli anni Novanta, poche, più recenti, operazioni di privatizzazione, per l’ammortamento del debito pubblico, sono state realizzate, attraverso “partite di giro” con la Cassa Depositi e Prestiti. Si può stimare comunque che ci siano almeno duecento miliardi di euro, tra partecipazioni e immobili, che possano, ancora, essere oggetto di procedure di valorizzazione e smobilizzo. Che potrebbero rappresentare un alleggerimento potenziale dello stock del debito pari a quasi il 10 per cento. A differenza delle privatizzazioni passate, lo smobilizzo degli attivi, potrebbe essere svolto più efficientemente, in tutte le fasi finanziarie e gestionali, da un soggetto con personalità giuridica separata dallo Stato.

Di seguito, in forma schematica, la nostra proposta:

  1. La Pubblica amministrazione trasferisce i beni pubblici cedibili, previa loro valutazione, e, per gli immobili da riconvertire, dotazione dei permessi urbanistici necessari, in una società privata separata e, quindi, non consolidata nel perimetro pubblico.
  2. Questa emette un equivalente ammontare di propri titoli obbligazionari, con scadenza decennale e zero coupon (ossia senza cedola, perché emessi sotto il nominale).
  3. Le obbligazioni dell’emittente privato, vengono girate, in pagamento, ai cedenti degli attivi.
  4. Le obbligazioni potranno essere utilizzate dalla P.A. per pagare diverse prestazioni quali il rimborso ai creditori commerciali, quota parte di nuovi pagamenti di forniture, quota pensioni o Tfr oltre una certa soglia, o collocati presso investitori istituzionali o privati.
  5. L’emittente procederà nel tempo alla valorizzazione degli attivi conferiti e alla loro dismissione, per far fronte al rimborso delle obbligazioni, alle scadenze.
  6. Le obbligazioni dovranno essere ammesse alla quotazione in borsa, ai fini della negoziabilità sul mercato secondario.

7. In caso di mancato rimborso alla scadenza, potrà essere prevista un’opzione di conversione in quote del Fondo, per ammontare, proporzionalmente corrispondente, al valore delle obbligazioni in circolazione, in base alla valutazione media degli attivi, nei precedenti sei mesi. Il provvedimento proposto permetterà di avviare un circolo virtuoso di riduzione dello stock e degli oneri di servizio del debito, di alleviare la pressione fiscale su cittadini e imprese e di restituire al volano dello sviluppo importanti cespiti, altrimenti, in parte o del tutto, inutilizzati.

Aggiornato il 14 giugno 2019 alle ore 17:28