“Ora basta!”, parla Simon Pietro Salini della Salc

Simon Pietro Salini ormai da anni ha sostituito il fratello Claudio (deceduto tragicamente in un incidente automobilistico su una delle tante buche della Cristoforo Colombo il 31 agosto 2015) alla guida della Salc – Società appalti lavori e costruzioni – che è l’impresa numero 18 tra quelle italiane del settore, con un portafoglio opere di oltre 450 milioni di euro e un miliardo di euro di giro d’affari. A oggi ha ultimato circa 25 di quelle che si definiscono “grandi opere”, e il verbo “ultimare” va sottolineato in un paese che apre cantieri e non li chiude. La Salc, a tal proposito, ne ha altri 12 aperti sparsi in giro per l’Italia. Non è inutile dire che direttamente impiega 298 persone e  indirettamente dà da lavorare a migliaia di persone in Italia e nel mondo. Salini in questa intervista della serie di “Ora basta!” ci spiega la sua adesione al manifesto dei costruttori italiani che lottano disperatamente contro la burocrazia e il senso dell’iniziativa in sé.

Architetto Salini, il presidente dell’Anac Raffele Cantone nega che il Codice degli appalti sia un problema per l’aggiudicazione degli stessi e parla di polemiche inventate. Lei che ne pensa?

Diciamo che ha ragione forse sulla semplice aggiudicazione dei singoli appalti, però i cantieri non si aprono e a volte la procedura di varo dura più a lungo che la successiva fase di ultimazione dell’opera stessa.

Cosa non va allora secondo lei in questo Codice degli appalti?

Oramai c'è una minore professionalità e minore preparazione nella Pubblica amministrazione. E questo porta a non prendersi responsabilità e a non correre rischi. In questo quadro il Codice degli appalti è venuto a complicare più che a semplificare le cose, con queste pretese di avere progetti esecutivi che nessuno è in grado di perfezionare nei tempi dati e con queste commissioni che giudicano sugli appalti che stentano a decollare.

E le imprese? Come mai negli anni Sessanta si costruiva in pochi mesi e oggi ci vogliono anni?

Sicuramente ci sono state tante colpe anche da parte delle imprese. Che risentono del clima generale. Le opere pubbliche andrebbero rimesse al centro dello sviluppo economico e contemporaneamente andrebbe limitata la responsabilità erariale dei pubblici funzionari solo ai reati di malversazione, corruzione e in genere al dolo e alla colpa grave. Sia  del pubblico funzionario sia  dell’imprenditore. Tenendo però fuori tutto il resto..che altrimenti la situazione è destinata a bloccarsi per sempre.

Un discorso che oggi in Italia verrebbe giudicato eversivo vista la generale situazione di pensiero unico forcaiolo...

Beh, anche in quell’ottica andrebbe valutato, in una ipotetica analisi costi e benefici, che il tenere  tutto fermo provoca un danno erariale ben superiore. Se un’opera entra in funzione nei tempi previsti o quattro anni dopo – mettiamo un ospedale – si rischia addirittura di costruire qualcosa che al momento della sua inaugurazione è già divenuta obsoleta. Non mi pare che sia sostenibile. In mancanza del dolo o della colpa grave, bloccare tutto per irregolarità formali o cose lievi io credo che provochi danni ben superiori.

Rispetto al Codice degli appalti – nel dettaglio tecnico – cosa non funziona?

Guardi, sono uno dei firmatari dell’appello “Ora basta!”, come lei saprà, e l’errore principale è stato quello di non prevedere una normativa transitoria in attesa che il codice e i suoi istituti andassero a regime. E questo ha bloccato proprio il numero degli appalti. Hanno messo la pubblica amministrazione nelle condizioni di non potere lavorare perché i bandi per progetti esecutivi non esistevano e non ne era pronto neanche uno. E quindi per due anni hanno dovuto dedicarsi esclusivamente a questo mentre le opere pubbliche attendevano di potere partire. La società di mio fratello che adesso gestisco io è passata in tre anni da gare per oltre tre miliardi di euro a gare per seicento milioni. Con tutto l’annesso di una ricaduta occupazionale drammatica, visto che nel settore dal 2011 a oggi si sono persi seicentomila posti di lavoro, e questo grazie alle scelte dei vari governi  che si sono succeduti. Non ci sono più bandi cui partecipare perché per due anni hanno dovuto bloccare tutto per fare i progetti esecutivi e ancora non si è colmato il cosiddetto gap.

Lei  sta fornendo notizie drammatiche e  le sta comunicando in maniera semplice. Perché di queste cose non se ne parla nelle aperture dei Tg della sera visto che riguardano così tante famiglie?

Questo forse va chiesto ai suoi colleghi...

“Il sospetto è che sia meglio parlare di altro drammatizzando le notizie di cronaca per non dovere interrogarsi sulla criminalizzazione ideologica del settore appalti...

E’ anche un po’ il mio sospetto. Ma adesso l’Italia avrebbe bisogno di una robusta cura di buon senso se non vuole tornare indietro invece che andare avanti.

E quale sarebbe la cura contro questa stasi?

Lo ha spiegato bene il professor Sabino Cassese, questo codice nasce sul pregiudizio. Le imprese sono tutte imbroglione, i funzionari pubblici tutti in cerca della mazzetta e così via. Bisognerebbe – ripeto – tornare al buon senso.

Ad esempio?

Coordinarlo questo benedetto codice anche con la normativa sui fallimenti. Non è possibile che ci siano imprese che da fallite o in concordato preventivo partecipino agli appalti, magari con il vantaggio di non pagare subito - o mai -  i fornitori. Sennò oltre al problema della concorrenza sleale con chi nell’appalto è arrivato secondo o terzo c’è anche il rischio di provocare una filiera di fallimenti determinati dal fatto che il pesce grosso non paga quello piccolo. 

E quindi?

Quando un’impresa che ha vinto un appalto fallisce o non è in grado di portarlo a termine ci vorrebbe lo scivolo automatico al secondo classificato nella gara. Lo capirebbe anche un bambino. Ma con questa cultura del sospetto, da una parte, e dell’arrangiamento, dall’altra siamo arrivati al paradosso che è tutto fermo e il settore sta morendo.

Una riflessione sulle grandi opere e sull’urgenza delle stesse?

Se ogni volta che ci sta una grande urgenza, dal crollo del ponte a Genova a un terremoto nel Centro Italia, va nominato un commissario per procedere in deroga al codice degli appalti allora significa che è meglio far si che la deroga stessa diventi legge. E’ intuitivo. Inutile fare leggi inapplicabili e complicate. Una volta per una grande opera pubblica il tempo medio di realizzazione non superava i tre anni, ora ce ne vogliono dieci, se ce la si fa. Così non si può andare avanti. Per questo “Ora basta!” è diventato un manifesto condiviso per tutto il nostro settore.

Aggiornato il 19 febbraio 2019 alle ore 12:34