Trump, i dazi e i veri conservatori

Imponendo dazi su lavatrici e pannelli solari prodotti in Cina, il Presidente Trump tiene fede al proprio programma elettorale. È appena il caso di ricordare che l’Unione Europea aveva promosso misure contro l’importazione di pannelli solari cinesi già nel 2013: le istituzioni europee non sembrano, dunque, nella posizione migliore per criticare il Presidente americano. Riteniamo però importante tradurre e proporre al lettore italiano questo editoriale della “National Review”, la principale rivista di area conservatrice negli Stati Uniti. Ci sembra sia rappresentativo di un più vasto movimento di idee, che non manca di esprimere il suo consenso al Presidente quando lo ritiene opportuno, come nel caso della recente riforma fiscale, ma mantiene autonomia di pensiero e coraggio delle proprie convinzioni

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Dimostrando che provvedimenti di stampo protezionistico rimangono all’ordine del giorno, il Presidente Donald Trump ha imposto dazi sull'importazione di lavatrici e pannelli solari, con l’obiettivo di fare pressione sui produttori politicamente ammanigliati in Cina, Corea del Sud e Messico e, per estensione, sui governi di questi Paesi. Si tratta, però, di un errore.

L’opinione che Trump ha degli scambi internazionali era ed è folle: il Presidente continua a strepitare contro un gigante economico asiatico che sarebbe pronto a gabbarci. Una volta era il Giappone, prima ancora della Cina, il motivo delle nostre ansietà commerciali. Questo punto di vista ha prodotto alcune pessime conseguenze, tra le quali l’abbandono della leadership americana sulle questioni relative allo scambio internazionale: la decisione di abbandonare la Trans-Pacific Partnership (Tpp), ad esempio, non ha fatto fallire il progetto, ma ha semplicemente lasciato la sua guida al Canada concedendogli una maggiore influenza nei negoziati alla Cina. Trump ha definito il Tpp “un affare orribile”, ma non ha mai spiegato in dettaglio quali siano le sue obiezioni e per giunta la sua Amministrazione ha provato a introdurre alcune norme del Tpp in nuovi accordi commerciali.

I populisti presentano i dazi come misure punitive applicate ai danni di loschi interessi commerciali stranieri. Si tratta però di una imposta sui consumi che pagano i cittadini americani. Un dazio protegge i produttori inefficienti aumentando i prezzi di quei concorrenti che, in sua assenza, verrebbero scelti dai consumatori. Talvolta questo ha l’effetto di aumentare i prezzi al punto da estromettere il concorrente dal mercato, ma quello che avviene solitamente è che i produttori nazionali approfittano di questa opportunità per aumentare i propri prezzi a accrescere i propri margini di profitto. Questa è un’ottima cosa per i dirigenti e gli azionisti delle aziende così favorite, ma non è un buon affare per quegli americani che scoprono di avere prezzi più alti e scelte minori.

Le tariffe doganali finiscono sovente con l’avere effetti economici opposti a quelli desiderati, cosa che gli economisti hanno capito da molto tempo. Se, ad esempio, gli Stati Uniti imponessero un dazio su determinati beni prodotti in Giappone, ciò farebbe aumentare in America i prezzi dei beni giapponesi e quindi ridurrebbe la domanda di importazioni dal Giappone (che è l’effetto desiderato). A sua volta, questo ridurrebbe la domanda americana di yen (in quanto gli importatori americani ridurrebbero gli acquisti da produttori giapponesi), diminuendo così il valore dello yen rispetto al dollaro e, quindi, rendendo le importazioni giapponesi in America meno costose. Il che equivale a dire che un tasso di scambio flessibile sostanzialmente aggira gli effetti dei dazi, riequilibrando nei mercati valutari internazionali quello che i politici avevano distorto con le tariffe. L’aspetto peggiore di questo scenario è che uno yen svalutato e le minori esportazioni negli Stati Uniti lasciano i consumatori giapponesi con meno soldi per comprare beni americani, che – in virtù del minore valore dello yen – diventano più costosi in Giappone. È per questo motivo che l’avvenimento più significativo sui mercati dopo l’annuncio di Trump non è stato il crollo delle azioni dei produttori cinesi di lavatrici – gli investitori si aspettavano da tempo la decisione americana – bensì una drastica riduzione (pari all’1 per cento nel giro di poche ore) del valore del peso messicano.

Le misure protezionistiche danneggiano sempre i consumatori e spesso finiscono per accrescere il disavanzo commerciale, una volta che i consumatori stranieri acquistano meno beni americani. Il Presidente è ossessionato dai deficit degli scambi, che non sono “disavanzi” in senso proprio (non esiste un “debito commerciale” in continuo aumento come è invece il caso del debito pubblico). Si tratta in realtà di semplici accorgimenti contabili che esprimono determinate realtà economiche. Una di queste realtà è che gli abitanti dei Paesi più poveri – i cosiddetti mercati emergenti – tendono a risparmiare di più, il che significa a sua volta che usano buona parte dei dollari che guadagnano vendendo merci negli Stati Uniti per comprare titoli finanziari denominati in dollari, anziché beni al consumo. Il deficit commerciale non è altro che l’altra faccia della medaglia di un surplus di capitale. Quando ci vendono eccellenti elettrodomestici a buon mercato, i coreani non stanno approfittando di noi. Pensare una cosa del genere è pura e semplice superstizione economica.

A questo proposito: la Samsung sta già producendo elettrodomestici negli Stati Uniti, così come la Qindao Haier cinese e numerosi altri giganti asiatici del settore manifatturiero. Molti di essi operano anche in Canada e Messico. Se dovessero trovarsi nell’impossibilità di trasferire semplicemente i loro costi ai consumatori (aumentando i prezzi), è possibile che trasferiscano parte della produzione negli Stati Uniti, ma è altrettanto possibile – se non addirittura più probabile – che la produzione venga trasferita in Messico, realizzando la più parte dei loro manufatti nelle fabbriche in Asia, ma riservando il montaggio finale a un impianto situato nella zona di libero scambio nord-americana (Nafta), dove avrebbero maggiori probabilità di contestare i dazi più alti. Anche in questo caso, le tariffe doganali riuscirebbero solo a distorcere i mercati e sconvolgere le catene di fornitura.

Possiamo aspettarci che i dazi sui pannelli solari mettano qualche soldo in più nelle tasche di Elon Musk, Al Gore e altri investitori in energia solare, ma anche questo non è molto probabile. Circa l’80 per cento dei pannelli solari installati negli Stati Uniti viene importato dall’estero e questo settore – che ha un giro d’affari pari a 28 miliardi di dollari l’anno – afferma che i provvedimenti presi saranno un ostacolo, piuttosto che un aiuto. 

 L’associazione delle aziende del settore prevede la perdita di 23mila posti di lavoro solo per quest’anno. Di fatto, vi sono solo poche società americane attive nella produzione di pannelli solari. Azzoppare un intero comparto industriale a beneficio di alcune ditte con forti connessioni politiche non è un esempio di astuta politica economica, bensì un chiaro caso di capitalismo di relazione.

Il Presidente non dovrebbe mettersi tra gli americani e le loro lavatrici.

Aggiornato il 31 gennaio 2018 alle ore 08:19