La Brexit passa dalla Cina

Col passare del tempo diventa evidente che la Brexit risponde a un disegno strategico della City londinese, che considerava l’appartenenza all’Unione Europea più un vincolo che un beneficio.

Quando il premier David Cameron annunciò nel 2013 che avrebbe indetto un referendum sul tema, si intravedeva che nella élite britannica si faceva strada l’idea di trasformare l’isola in una enorme Singapore, con lo sguardo rivolto verso le opportunità offerte dalla Cina. Ora il disegno sta prendendo forma e l’accordo fra la Bank of England e la People’s Bank of China mette una parte considerevole dell’enorme liquidità cinese in mani britanniche. Lo stesso Cameron, che nel frattempo è diventato neopresidente del fondo sovrano Cina-Regno Unito, ha riconosciuto a Davos che, in fin dei conti, la Brexit non ha portato le conseguenze che si temevano. E se lo dice lui, che si è dovuto dimettere in seguito all’esito del referendum, c’è da credergli. Qualche malpensante potrebbe anche essere indotto a pensare che, in realtà, la Brexit rispondesse a un piano ben organizzato per agganciarsi ai due supertreni in corsa, quello cinese e quello americano.

E l’Italia? Un ruolo per il nostro Paese potrebbe essere ritagliato nel colossale progetto inizialmente denominato “Via della Seta” e ora Bri (Belt and Road Initiative), che vede la Cina impegnata con altri 70 Stati. Bene hanno quindi fatto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni a recarsi nella capitale cinese, dove sono stati ricevuti con il massimo degli onori. Purtroppo non altrettanti onori sono stati riservati alla delegazione cinese giunta a Venezia per l’inaugurazione dell’anno del turismo 2018 Europa-Cina: all’evento, programmato da mesi, l’Italia non era presente a livelli adeguati di rappresentanza politica, con la conseguenza che il vice Primo ministro cinese, Qi Xuchun, ha risposto alle assenze italiane lasciando il posto vuoto a tavola nel pranzo di gala offerto nella Sala dei Dogi.

E poi c’è la questione dei porti. Inizialmente i cinesi avevano individuato nel porto di Taranto uno dei possibili terminal europei. La vicenda ha dell’incredibile: in seguito alle lungaggini della politica e all’incertezza delle vicende giudiziarie, la Cina ha abbandonato il progetto e ha acquistato il porto greco del Pireo. Con questa mossa, era chiaro che la storica Via della Seta tracciata da Marco Polo poteva anche tagliare fuori proprio l’Italia dall’enorme traffico di merci generato da Bri. Lo smacco è stato in parte attutito grazie alla lungimiranza dell’amministratore delegato delle ferrovie, Renato Mazzoncini, che ha acquistato le ferrovie greche con una tempestività che sarebbe stata interdetta alla politica. Questa abile mossa sta spingendo i cinesi a riconsiderare i porti italiani come luoghi di approdo, speriamo quindi di non sprecare anche questa occasione.

E c’è l’Africa, di cui tanto si parla unicamente sotto il profilo dell’immigrazione clandestina. Sfugge che milioni di cinesi sono autorizzati da Pechino a lasciare la Cina per recarsi in quel Continente, dove è in atto un processo di penetrazione ben visibile con la realizzazione di strade, aeroporti e ferrovie. E quale potrebbe essere la porta d’accesso in Europa delle merci e delle materie prime africane se non l’Italia?

La campagna elettorale è appena iniziata. Ci si aspetterebbe dal futuro Governo una attenzione particolare alle tematiche che decideranno il ruolo geopolitico dell’Italia. Le forze politiche dovrebbero abbandonare il vecchio vizio di agire contro qualcuno o qualcosa e dedicarsi, invece, alla costruzione del futuro.

Aggiornato il 30 gennaio 2018 alle ore 08:10