Lavoro: la ricetta di Capone (Ugl)

“C’è un problema povertà generalizzato che viene troppo spesso sottovalutato”. Il rapporto Ocse “Preventing Ageing Unequally” nei giorni scorsi ha fatto molto discutere. Ne abbiamo parlato con Francesco Paolo Capone, segretario generale del sindacato Ugl, che ci ha spiegato quale sia il problema e quali le misure per uscire da una stagnazione economica che da troppo tempo affligge il nostro Paese. I giovani in Italia faticano a entrare nel mondo del lavoro. La riforma delle pensioni realizzata dall’ormai ex ministro, Elsa Fornero, non aiuta. E per molti ragazzi del Belpaese non c’è altra scelta che emigrare. Andare fuori, all’estero, in cerca di fortuna.

L’Italia non è un Paese per giovani. Perché?

L’Italia non è un Paese per giovani perché tutti i loro sacrifici per la formazione scolastica e universitaria non vengono poi sfruttati nel ciclo produttivo del Paese. Abbiamo un mondo del lavoro che tende a invecchiare molto e anche preoccupanti notizie sull’eventuale obbligatorio allungamento dell’età pensionabile così come prevede la legge Fornero. Fatti che rischiano di tenere persone molto anziane all’interno del ciclo produttivo e che non danno possibilità ai giovani di esprimere la loro capacità lavorativa.

I giovani sono davvero più poveri e senza lavoro come dice l’Ocse?

Assolutamente sì. C’è un problema povertà generalizzato per l’Italia che viene troppo spesso sottovalutato. Ai 5 milioni di persone che vivono in uno stato di indigenza reale vanno aggiunte altre 14 milioni di persone circa che vivono in una condizione di povertà relativa, che riescono a sopravvivere perché hanno un reddito, ma non riescono ad affrontare gli imprevisti della vita. Penso a eventi che possono essere legati a esigenze di cura piuttosto che di altra natura: in questo mare magnum di persone, che sono ai limiti della sopravvivenza, molti sono giovani.

Quali sono le problematiche che affliggono i ragazzi?

Le problematiche sono quelle di avere percorsi di studi e percorsi universitari che non trovano corrispondenza nel mondo del lavoro. I tentativi che sono stati fatti di alternanza scuola-lavoro, così come la nuova riforma della scuola prevede, non hanno dato i risultati attesi e si sono trasformati in interventi di sfruttamento del lavoro e soprattutto di mancanza di conoscenza anche delle norme basilari della sicurezza sui luoghi di lavoro piuttosto che in momenti formativi.

E di iniziative come “Garanzia Giovani” che mi dice?

Durante “Garanzia Giovani” le aziende hanno avuto manodopera a costo zero e forza lavoro destinata, nella maggior parte dei casi, a lavori di complemento e non di apprendimento. Non ha funzionato.

Il rapporto Ocse in questo senso è inquietante. Lei che ne pensa?

Penso che noi abbiamo una situazione del sistema Paese che è molto preoccupante oltre che a essere inquietante. Il gran numero di giovani che va all’estero per lavorare molto spesso è molto qualificato. Non voglio fare a posteriori una polemica con il ministro Giuliano Poletti che raccontava “i giovani che vanno all’estero ce li siamo tolti dai piedi”. Non è così. Le famiglie fanno dei sacrifici sostenendo i loro studi e poi di questi sacrifici ne fruiscono Paesi terzi. Mi sembra che sia una situazione assurda per un Paese che vuole crescere, per un Paese che deve adeguare le sue competenze di base a quelle delle nuove tecnologie e a quelle dell’Industria 4.0.

Quali sono le idee buone per supportare il lavoro giovanile?

Intanto dovrebbe essere riaperto un turn over generalizzato. Bisognerebbe stabilire che non può continuare l’età lavorativa oltre i 65 anni. Sono molte le problematiche che affliggono una persona ormai anziana che continua a lavorare anche in una posizione di difficoltà oggettiva. Tutto questo, poi, non consente ai giovani di entrare nel mondo del lavoro.

Un po’ di dati?

Un dato chiaro di questo: dal 2004 al 2016 abbiamo avuto un tasso di occupazione che è passato dal 57,6% al 57,2 per cento. Come si può osservare il dato di occupazione, nonostante la crisi, si è rivelato abbastanza costante. Se però andiamo a vedere il dato scomposto per età: i giovani scendono dal 52,3 al 39,9 per cento mentre quelli che appartengono alla fascia da 55 a 64 anni, passano dal 30,6 per cento di occupazione al 50,3 per cento. Quindi abbiamo una stabilità del dato occupazionale per il semplice fatto che le persone anziane sono rimaste di più nel ciclo produttivo, ma non c’è stato alcun ingresso di giovani. Quindi questo è un indicatore chiaro della difficoltà di questo Paese a rinnovare i propri lavoratori.

Come le sembra l’ultima manovra su questo punto?

La manovra non mi sembra dia grossi spazi. Non è una manovra di sviluppo. Il nostro è un Paese che vive una stagnazione economica da troppo tempo e per uscire dalla stagnazione, nonostante le richieste degli industriali, che chiedono un abbassamento del costo del lavoro, è necessario aumentare la base retributiva, soprattutto delle fasce medio basse.

Significa intervenire a sostegno dei salari?

Noi il taglio del cuneo fiscale non dovremmo farlo dalla parte del datore del lavoro, per far costare meno il lavoro, ma dovremmo farlo dalla parte del lavoratore per dargli più disponibilità. Credo che sia una semplice regola di buon senso. Vanno favoriti maggiori consumi. I maggiori consumi si ottengono sulla gran massa dei lavoratori facendo una politica dei redditi più coraggiosa. In parte intervenendo sul cuneo fiscale a carico dei lavoratori e in parte delle aziende che non possono continuare a fare una svalutazione competitiva sul lavoro.

Essere entrati nell’Ue ha qualcosa a che fare con questo?

In passato, quando eravamo un Paese sovrano, eravamo un Paese che batteva moneta. Ci siamo trovati davanti a fenomeni di svalutazione competitiva quando il mercato era fermo: abbassi il valore della lira e questo rende più appetibili i prodotti costruiti nel nostro Paese. Oggi la svalutazione competitiva non si fa più sulla moneta, ma sul costo del lavoro. A carico dei lavoratori. Ciò non rimette in moto la macchina economica in nessuna maniera.

Se questi sono i dati, cosa ci possiamo aspettare dal futuro?

Dal futuro ci dovremo aspettare un Paese che invecchia sempre di più, un Paese che non riesce più neanche a garantire il welfare di base. Quello che sta succedendo è che purtroppo i poveri stanno diventando più poveri e i ricchi stanno diventando più ricchi. Non c’è una distribuzione omogenea, ma c’è una concentrazione della ricchezza nelle fasce alte e altissime della popolazione. Il nostro è quindi un pase in difficoltà se non riprende a marciare su livelli economici importanti. Se non riesce a rimettere in moto l’economia.

Aggiornato il 21 ottobre 2017 alle ore 08:33